È risaputo che oggi sprechiamo molto del nostro tempo. A mio avviso, il tempo non è mai sprecato se non quando ci si sofferma troppo e a lungo sulle preoccupazioni. Oggi l'ansia divora noi con il timore che il tempo ci scivoli via inutilmente. Rispetto al passato, la vita di oggi comoda, conquistata col progresso, dovrebbe alleggerire il timore che il tempo ci sfugga. Invece accade il contrario. Più comodi siamo e più il tempo diventa nostro nemico.
Allora forse il problema risiede nel fatto che abbiamo scollato il tempo dalla vita, ritenendo il primo l'impedimento della seconda.
Nell'Ottocento il tempo era la misura della vita. Gli orologi erano nella possibilità di pochi. L'orologio nel taschino designava il ricco, il potente e l'intellettuale prestigioso. L'orologio con catenina inserito nel taschino della giacca indicava che l'uomo era proprietario del tempo, al contrario di operai e contadini che invece erano posseduti dal tempo regolato dal padrone e dalle ore di lavoro da costui stabilite.
Essere padroni del tempo equivaleva all'essere proprietari della persona alle proprie dipendenze e questa è una delle conseguenze del capitalismo industriale. Prima dell'Ottocento i dipendenti al servizio degli aristocratici, nonostante i maltrattamenti subiti dai loro superiori, avevano dei ritmi che obbedivano alle loro esigenze naturali. Si rimaneva bene o male nella propria dimensione che abbracciava tutta la proprietà luogo di lavoro e di residenza. Con la seconda rivoluzione industriale più che con la prima i ritmi e gli spazi di pertinenza vengono stravolti. Ci si sposta e se non per la guerra, per trovare o cercare lavoro. L'abbandono del proprio tetto diviene un trauma e per chi vive ancora in famiglia e per chi è già coniugato. A spostarsi sono anche cameriere e precettrici e l'immagine della carrozza o del treno che va a velocità più spinta sono i simboli dell'abbandono. La velocità porge al contrario il vento dei ricordi che trattengono il viaggiatore alla dimensione lasciata.
Il treno diventa il simbolo di ciò che si spezza, di un legame che difficilmente potrà essere ristabilito con le identiche modalità. La rottura con lo stile di vita precedente nei romanzi ottocenteschi è resa proprio dall'immagine del treno. Dalla locomotiva che incalza e dalla nebbia fuligginosa che la fornace a carbone disperde. Nonostante la prima ferrovia italiana sia stata costruita per volontà dei Borbone a Portici, il treno diventa simbolo dell'Europa trainante la nuova economia. Lo troviamo ampiamente presente nella narrativa fine Ottocento ambientata a Londra e a Parigi o nella Russia zarista in forte recupero rispetto al passato.
Ciò che si è lasciato dietro risuona al ritmo delle rotaie creando un sottofondo mesto, incalzato dallo stantuffo iniziale che indica un nuovo incipit che va verso un dubbioso futuro. Londra e la sua fuliggine vengono irrobustite e ulteriormente ingrigite nell'immaginario del tempo dal vapore del treno che aggiunge molto alle atmosfere già tetre della nuova capitale economica.
La carrozza rimane appannaggio dei ricchi soggetti a brevi spostamenti spesso effettuati tra la casa padronale e la dimora delle vacanze. Viene usata per far visita ad amici e parenti e per spostarsi nelle vicinanze.
Difficilmente la carrozza contiene un addio. Si colloca nella dimensione del tempo antico che traina verso la vita ma non la spezza.
Nonostante tutti i pericoli, la vita nell'Ottocento era degna di essere vissuta al punto da spingere la lotta operaia nella conquista dei diritti negati e le sommosse ovunque diffuse in nome della libertà. Esistevano i sentimenti e avere fede significava nutrirli nel profondo per nutrirsi a sua volta di essi. Non importava la durata, era importante vivere il flusso di amore che si proiettava nella corrente della vita. Questo spiega l'importanza dei rapporti epistolari e l'esigenza di contemporaneità impossibile tra lettera scritta e ricevuta, simultaneità realistica solo nella dimensione sognante.