Moro, un caso irrisolto, INTERVISTA a Salvatore La Moglie
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Moro, un caso irrisolto, INTERVISTA a Salvatore La Moglie

Il caso Moro, cosa non convince? Ne parliamo col prof. Salvatore La Moglie.

L'ignoranza e' anche non saper leggere il presente e quindi non preoccuparsi del dopo. La Storia, e soprattutto quella attuale, ce lo insegna. Purtroppo  come spesso ci ricordano determinati avvenimenti, l'Italia soffre di memoria corta. Cio' comporta il ritorno di situazioni pregresse mai evidentemente risolte. No solo! Anche il protrarsi di gravi ingarbugliamenti che vedono l'implicazione di più attori mossi da fii nascosti.

Le vicende misteriose sono tante nel nostro bel Paese e una tra queste che ci riporta a un momento poco sereno e rimasto nel vago. Mi riferisco a quella del caso Moro spesso menzionato ma a mio avviso non ancora affrontato con dovuta profondità, forse perché alcuni dei soggetti  coinvolti sono ancora in vita e stranamente?  ancora presenti sulla scena politica nazionale. Tra coloro che hanno preso a cuore il caso Moro, tra giornalisti e scrittori, troviamo il prof. Salvatore La Moglie, calabrese, che ci fornisce una lettura esaustiva su tutti i fronti, un’analisi lucida e non partecipata politicamente che dà spazio a una trattazione narrativa piacevole. Il caso Moro è pertanto un saggio nel romanzo, che ha permesso al suo autore di partecipare e di vincere diversi premi letterari nazionali.

Prof. La Moglie, lei è  uno scrittore completo in quanto anche storico e saggista. Diversamente  da molti altri autori calabresi, lei non si limita a trattazioni su argomenti  circoscritti e a carattere locale, ma dimostra di andare oltre. Cosa rappresenta per lei la scrittura?

"È vero. Premesso che della mia calabresità  sono fiero e che la mia terra c’è in più di una mia opera, ho sempre cercato di non essere lo scrittore calabrese che si caratterizza scrivendo di cose del Sud o soprattutto del Sud, di contadini, di fatti di ‘ndrangheta e via dicendo. Ho parlato  anche di questi argomenti in alcuni racconti che sono stati più volte premiati in Concorsi e Premi, ma io ho sempre voluto essere uno scrittore “nazionale” le cui opere possano essere lette e apprezzate anche da un pubblico non meridionale e addirittura non italiano, qualora fossero tradotte in altre lingue. Finora il mio modo di scrivere e di utilizzare la lingua in una dimensione “nazionale” ha funzionato. Questo non vuol dire che io non voglia utilizzare la mimesi dialettale e avvalermi del dialetto dei parlanti in una eventuale opera (che ho in testa da parecchio tempo) di ambiente calabrese, fatto di povera gente della civiltà contadina.

Quanto alla domanda che cos’è per me la scrittura, rispondo che innanzitutto per me scrivere (come leggere) è una seconda natura: se non scrivo o leggo muoio. La scrittura, leggere e, insomma, la cultura rappresentano quello che io definisco ne Il cocchio alato del tempo la quinta dimensione  per me irrinunciabile. Parallelamente a questa concezione, la scrittura e la cultura costituiscono per me una formidabile forma di contestazione e di resistenza: al male, alla violenza della Storia, alla stupidità, alla banalità della vita quotidiana, ecc.  e, quindi, un’arma non violenta  alla violenza del mondo, un meraviglioso strumento di comprensione di una realtà e di un mondo sempre più complessi e complicati e anche un’alternativa di vita e una particolare modalità di esistenza."

La sua prima esperienza come scrittore è  stata proprio incentrata sul caso Moro. A quando risale?

"Sì, la mia avventura letteraria o se vuole la mia prima prova di scrittura è stata proprio la vicenda dell’on. Aldo Moro. Nel 1978 avevo vent’anni e da subito l’orribile fatto di cronaca, cioè la strage, il sequestro e poi l’assassinio di Moro mi apparve come un gravissimo fatto di Storia. Dal 16 marzo cominciai a tenere un diario su tutto quello che accadeva giorno per giorno fino a poi incominciare una vera e propria ricerca più approfondita sui 55 giorni del caso Moro continuando anche per un intero anno e, quindi, ricercando anche sul dopo, per dimostrare come la Democrazia Cristiana aveva tradito il disegno politico del suo leader. L’affaire Moro fu per me una vera e propria ossessione e la mia prima palestra di scrittura, qualcosa che mi ha tenuto in tensione per oltre quarant’anni. Per me il caso Moro era come un destino, qualcosa a cui era profondamente legata la mia vita, la quale fu cambiata da quella vicenda. E così, dal 2005 in poi, mi sono immerso nelle profondità oscure della storia del nostro Paese, quella del Secondo Dopoguerra, per ricercare e poter alla fine giungere – come semplice cittadino di questa Repubblica – a una verità accettabile sul caso e poter rendere giustizia a un uomo inerme, barbaramente assassinato a freddo dopo un supplizio psicologico di 54 giorni. Inoltre, quello che per me ha sempre avuto importanza nel caso Moro e nella figura emblematica di Moro è stato averli visti come una metafora della storia d’Italia e dello stesso destino politico del nostro Paese eternamente condizionato dalla politica estera e, dopo il 1945, a sovranità limitata."

Lei ha scritto altre opere. A quale tra queste  è  particolarmente  legato?

"Il mio primo romanzo (mentre facevo ricerche su Moro) è stato scritto in sei mesi nel 1995 e pubblicato dalla  Pellegrini di Cosenza nel 1998. Lo intitolai La stanza di Pascal, prendendo lo spunto da un pensiero del filosofo Blaise Pascal secondo il quale tutta l’infelicità degli uomini nasce da una cosa soltanto: dal non saper stare tranquilli dentro una stanza. Il romanzo, definibile come psicologico e d’introspezione, ebbe molto successo e dopo mille copie ne feci ristampare altre mille. Poi, nel 1999, tra luglio e agosto, in quindici giorni, in un momento davvero magico, ho buttato giù quello che ritengo il mio capolavoro a livello di narrativa, un vero e proprio classico, di quelli che si potranno leggere anche tra mille o duemila anni e sembreranno sempre attuali. Mi riferisco a Il cocchio alato del tempo, pubblicato dalla Calabria letteraria editrice della Rubbettino: in poco più di cento pagine ho cercato di racchiudere i temi fondamentali della vita, attraverso un serrato dialogo tra un padre e un figlio che per anni aveva ignorato il coltissimo genitore. Il successo fu tanto. In sei mesi mille copie furono esaurite e ne feci ristampare altre duemila. Ricordo gli incontri che feci nelle scuole superiori e in una, a Paola, riuscii persino a “superare” Il barone rampante di Calvino, nel senso che gli alunni preferirono il mio libro a quella lettura. Non solo ma, dopo quasi vent’anni, ho inviato il testo in alcuni concorsi letterari ed è stato più volte premiato. Dunque, io sono particolarmente legato a Il cocchio alato del tempo, tanto che quest’anno ho fatto pubblicare una nuova edizione dalla Macabor."

Rimaniamo sul caso Moro. Cosa l'ha portata a intraprendere la trattazione scritta approfondita?

"Per me, ripeto, il caso Moro è stato come un destino, qualcosa a cui la mia vita era profondamente legata. Ciò che, dunque, mi ha spinto a ricercare, a leggere centinaia di migliaia di pagine e a scriverne circa seimila di diario (che spero di poter pubblicare per intero) è stata una forte esigenza di impegno civile, una forte esigenza di verità, una verità sul megagiallo del caso Moro da opporre alla verità ufficiale narrata e imposta all’opinione pubblica italiana dal Potere politico e dalla maggior parte dei media. Insomma, un controracconto, una contronarrazione da opporre alla narrazione di comodo dei Cossiga e degli Andreotti ma anche di tanta stampa che per anni e anni ha ripetuto instancabilmente che un fatto come l’operazione  Moro  fosse opera solitaria delle genuine  e rivoluzionarie Brigate Rosse con nessuno dietro. E siccome le BR erano così pericolosamente comuniste non si poteva assolutamente trattare per salvare Moro altrimenti ci sarebbe stata la catastrofe, sarebbe crollato lo Stato e insieme a lui il Paese… Una enorme sciocchezza! Moro si poteva e si doveva salvare! Non lo si è voluto salvare, la classe politica decise fin dal 16 marzo di lasciare al suo destino Aldo Moro perché con i terroristi che hanno ucciso cinque poliziotti non si scende a patti… La strage non fu fatta a caso: fu fatta proprio perché si potesse ottenere il consenso dell’opinione pubblica alla decisione di non salvare Moro e di sacrificarlo in nome di una presunta ragion di Stato e di un improvviso e rigidissimo senso dello Stato proprio in un Paese mai così tanto fermo e rigido e, poi, così scombinato come l’Italia, come ebbe a scrivere Moro con amara ironia."

Secondo lei, prof.La Moglie, perche’ Moro  e’ stato assassinato?

"Moro fu violentemente fermato innanzitutto per porre fine alla coraggiosa svolta politica, il nuovo corso politico che vedeva per la prima volta, dopo l’esperienza dell’unità nazionale dell’immediato Secondo Dopoguerra, la partecipazione del Partito Comunista alla gestione del potere anche se solo, per il momento, all’interno di una maggioranza parlamentare. Moro era profondamente convinto che i gravi problemi del Paese, che l’emergenza (io temo l’emergenza…, diceva più volte) sia economica che terroristica potevano essere affrontate e risolte solo con l’aiuto della più grande forza di opposizione e cioè il PCI di Enrico Berlinguer, che lui riteneva assolutamente affidabile e non pericoloso nell’associarlo al governo del Paese e, quindi, alla gestione del potere. Così, però, non la pensavano, all’esterno, le potenze amiche e alleate come gli Stati Uniti d’America, l’Inghilterra, la Francia e la Germania; all’interno più di metà della Democrazia Cristiana (cioè il partito di Moro), una parte importante del Vaticano, della borghesia capitalistica e industriale, le lobbies, la massoneria e soprattutto quella deviata della Loggia P2 di Licio Gelli e, non dimentichiamolo, del neofascismo sia istituzionale che violento, quello delle stragi, che detestavano Moro per la sua politica di apertura al PCI. Insomma,  il coraggioso progetto, il disegno politico del demiurgo Aldo Moro aveva più di un nemico e lui ne era perfettamente consapevole. Sapeva che, a livello internazionale, i due maggiori oppositori erano gli USA e l’URSS: i primi in quanto erano spaventati al solo pensiero che in un paese occidentale potesse governare democraticamente un partito comunista che facesse, in tal modo, da esempio per altri paesi in cui erano forti i PC come in Francia, Spagna e Portogallo; i secondi perché non riuscivano a concepire che un PC fratello potesse giungere al potere per via democratica, istituzionale e non per via leninista e sovietica.

Si tenga presente il fatto che il 12 gennaio del 1978 giunse dal Dipartimento di Stato americano l’avvertimento ai paesi amici di non mettere in piedi governi con la presenza di partiti di non sicura fede democratica (sottinteso, come il PCI…). Era una grave ingerenza che confermava il nostro status di paese a sovranità nazionale. Moro comprendeva i dubbi americani ma, nello stesso tempo, riteneva che a conoscere la situazione del nostro Paese siamo noi italiani e quindi abbiamo il diritto di decidere da noi il nostro destino politico. Insomma, Moro difendeva la dignità e la sovranità nazionali ma, evidentemente,  per le due Superpotenze (USA e URSS) commetteva peccato di hybris, cioè di sfida alle due divinità, violava gli inviolabili Accordi di Yalta in base ai quali nulla doveva e poteva cambiare nelle due sfere di influenza e il Muro di Berlino, che per Moro poteva già crollare nel ’78, era per loro incrollabile.

Dunque, Moro fu vittima dell’anticomunismo più viscerale e ottuso, sia all’esterno che all’interno e, per entrambi i due livelli, occorreva che nulla cambiasse. In via Fani operò e vinse l’Italia dello status quo, l’Italia del gattopardismo, per cui nulla deve cambiare. Pertanto, occorreva impedire che l’uomo dell’accordo con i comunisti diventasse il futuro Presidente della Repubblica: dopo Leone era lui il più papabile. Questo andava decisamente impedito perché Moro, da quello scranno, avrebbe dato la sua autorevolissima benedizione all’operazione compromesso storico e, insomma, alla svolta politica in atto nel nostro Paese che vedeva, dopo una lunga conventio ad excludendum, il partito comunista nell’area del governo, poi magari in più aperta e più esplicita collaborazione con la DC fino a giungere, più in là, ad una vera e propria alternanza al potere come in ogni altro paese dell’Europa Occidentale. Si tenga presente che Moro, nel suo famoso discorso di Benevento di fine 1977, si era spinto fino a prevedere che nel nostro Paese potessero essere realizzati alcuni elementi di socialismo. Era troppo, no?...

Certo, con via Fani e poi la crudele eliminazione di Moro, oltre alla fine dei governi di solidarietà e unità nazionale con il PCI nella stanza dei bottoni, si ottenevano altre importanti cose, nel medio e lungo periodo."

Il libro sul caso Moro dov'è reperibile?

"Per il momento soprattutto nelle grandi librerie ed edicole online come Amazon, La Feltrinelli, Mondadori store e altre.  In qualche grande libreria del Nord certamente è presente anche il cartaceo. Purtroppo, essendo la mia una piccola casa editrice che cerca di farsi strada in mezzo ai giganti dell’editoria, non le è ancora possibile una diffusione capillare, su tutto il suolo nazionale. Naturalmente, per l’acquisto ci si può rivolgere anche direttamente all’editore o anche al sottoscritto."

Secondo lei, perché il caso Moro è ancora attuale?

"A mio avviso è sempre attuale e lo sarà finchè non avremo una volta per tutte la verità nella sua interezza. Verità che tuttora non abbiamo nonostante gli importanti risultati raggiunti dalla Commissione Moro2 guidata da Beppe Fioroni e Gero Grassi.

La verità dei fatti sulle stragi e i delitti eccellenti nel nostro Paese da Portella della Ginestra fino a Mattei, strage di Piazza Fontana, di Brescia, Via Fani, delitto Mattarella, strage di Bologna, stragi di Capaci, di via D’Amelio, ecc. ecc. c’è chi la conosce sia a livello alto e altissimo che a livello di manovalanza neofascista, mafiosa o brigatista. Si è parlato di stragi di Stato e questo perché dietro c’erano le complicità e le coperture dei nostri eterni servizi segreti paralleli e deviati che hanno sempre inquinato le prove e attuato depistaggi affinchè la verità non venisse mai a galla. Tutto è stato ben occultato e anzi spesso è stata fatta ricadere la colpa su gruppi o persone di estrema sinistra per, appunto, depistare e poi poter reprimere. Si pensi alla strage di Piazza Fontana o allo stesso caso Moro: le BR, finte o vere che fossero, come un gigantesco depistaggio che doveva servire anche per poter criminalizzare e reprimere duramente l’estrema sinistra per eliminarla dalla scena politica.

Quando certi delitti e certe stragi sono commissionati e coperti da forze potenti, come si può pensare di giungere facilmente alla verità? La verità diventa quasi impossibile e la si può soltanto immaginare e intuire. Certamente, ripeto, la verità c’è chi la conosce bene sia a livello alto e altissimo dei mandanti che a livello basso e bassissimo della manovalanza, degli esecutori ma avviene sempre che ci sia una sorta di tacito patto (patto di omertà, lo chiama Sergio Flamigni) tra i due livelli che consiste nel tacerla perché si tratta di una verità indicibile e inconfessabile. E questo perché, nella fattispecie dell’affaire Moro, oltre al fatto vergognoso di aver lasciato uccidere crudelmente il più che probabile futuro Presidente della Repubblica c’è soprattutto l’indicibilità e l’inconfessabilità di aver dovuto obbedire alle potenze Alleate e alla fredda logica del Patto di Yalta, che imponeva l’immutabilità degli scenari politici ad Est come ad Ovest. Insomma, l’Italia era un paese a sovranità limitata, una colonia tenuta sotto controllo e sotto tutela dalle potenze Alleate, soprattutto l’America e l’Inghilterra, come ha ben spiegato il giornalista Giovanni Fasanella nel suo libro Colonia Italia. Basti pensare che è emerso che nel 1976, anno in cui si temeva il sorpasso comunista alle elezioni politiche, l’Inghilterra era pronta a mettere in piedi un colpo di stato in Italia affinchè nulla cambiasse…

Insomma, nella vicenda Moro c’è tuttora più di un segreto e per questo resta sempre di grande attualità  e il caso non è per nulla chiuso e resta tuttora aperto e questo lo ha detto lo stesso Fioroni. Il fantasma di Moro si aggirerà ancora sulla scena politica e avrà pace solo quando si farà piena luce e si arriverà alla totale verità sul suo sequestro e sul suo spietato assassinio."

Lei all'interno del libro sul rapimento di Moro apre una parentesi su una vicenda particolare che riguarda una seduta spiritica che coinvolge Romano Prodi. Ce ne  vuole parlare?

"Nel mio più ampio lavoro sul caso Moro, che consta di oltre tremila pagine, c’è anche il misterioso episodio della famosa seduta spiritica che vide come protagonista il prof. Romano Prodi. Veda l’affaire Moro è un gigantesco giallo e un enorme e labirintico mistero che ha, al suo interno, tanti altri piccoli e anche grandi misteri mai chiariti e tutto questo sia durante i 55 giorni che nel dopo via Caetani.

La seduta spiritica si tenne il pomeriggio del 2 aprile 1978, in pieno rapimento Moro, in un casolare di Zappolino, nella campagna bolognese, di proprietà del prof. Alberto Clò. Oltre al più noto Prodi, c’erano anche altri docenti universitari di Bologna come Mario Baldassarri e, appunto, i professori Clò, Gobbo e Bernardi nonché altre persone. In breve, durante la seduta furono evocati gli spiriti di don Sturzo e di La Pira, in odore di santità, i quali (con tanto di movimento del piattino…) avrebbero suggerito la parola Gradoli. Il 4 aprile Prodi riferì la vicenda a Umberto Cavina, che era il portavoce di Zaccagnini, segretario della Dc, che informò subito Luigi Zanda, all’epoca molto vicino al ministro degli Interni Francesco Cossiga, che fece sapere della cosa al capo della polizia Giuseppe Parlato. Ebbene, invece di seguire il suggerimento della signora Moro e cioè di andare a fare rastrellamenti in via Gradoli a Roma, si preferì negare l’esistenza di tale via e di inscenare inutili e spettacolari battute nel paesino di Gradoli, in provincia di Viterbo… La via Gradoli esisteva eccome! La polizia c’era già stata e aveva bussato alla porta (invece di sfondarla come tante altre allora) dov’erano i terroristi forse con Moro dentro ma, non ricevendo risposta, se ne ando’ via… Poi, il 18 aprile fu scoperto, anzi fu fatto scoprire per caso il covo che era proprio in via Gradoli, dove c’erano locali gestiti dai servizi segreti (guarda caso…). Contemporaneamente, fu messo in piedi dal comitato di crisi al Viminale il falso comunicato n. 7 in cui si diceva che Moro era stato giustiziato e gettato nelle gelide acque del Lago della Duchessa…

Tornando alla seduta spiritica, c’è da dire che è tuttora rimasto un mistero all’interno del grande mistero del caso Moro. Prodi non è stato mai chiaro e anzi alquanto fumoso. Evidentemente fu tutta una messinscena e più che di seduta spiritica si trattò di una soffiata che quei professori bolognesi riuscirono ad avere da qualche brigatista-informatore o comunque da qualcuno dell’Autonomia Operaia che non voleva la morte di Moro e indico’ il luogo dove potevano trovarlo o comunque trovare i brigatisti e acciuffarli. Un’altra versione vuole che a fare la soffiata su via Gradoli sia stato qualche agente italiano legato al KGB sovietico. Insomma, comunque sia, occorreva coprire la fonte che aveva indicato via Gradoli. La mattina del 18 aprile la polizia giunse in via Gradoli a sirene spiegate e i terroristi, forse già avvertiti dai servizi segreti deviati e piduisti che li controllavano  e li gestivano, riuscirono a mettersi in fuga…"

Cosa ancora non convince dell'intero caso?

"Le cose che non convincono dell’intero caso Moro sono tante. Tante cose sono ancora destinate a restare misteri e/o segreti, come per es., le borse di Moro, in alcune delle quali il leader democristiano portava documenti riservati e che sono state fatte sparire, e, soprattutto, il Memoriale (che Miguel Gotor ha giustamente definito della Repubblica) che, a noi mortali, è stato dato di conoscere solo in forma censurata. Tanti sono i puntini di sospensione, gli omissis (operati da chi?) nella narrazione di Moro, il quale chissà cosa aveva scritto a futura memoria degli smemorati italiani… Non lo sapremo forse mai, ma c’è chi ha letto, c’è chi ha censurato, c’è chi ha  custodito e c’è chi sa dove è custodito il testo completo del Memoriale.  Tanti sono i misteri destinati probabilmente a restare tali, come le “prigioni” in cui fu tenuto Moro (Gradoli? Montalcini?...), l’inquietante “bar Olivetti” della scena della strage e l’informazione, di fonte palestinese, proveniente da Beirut, datata 18 febbraio 1978, secondo cui, in Italia, era in preparazione un grave attentato. Informazione che il ministero degli Interni guidato da Cossiga e i vertici dei nostri servizi segreti finsero di non aver visto, letto e udito, come del resto altre informazioni simili.

Le domande, i dubbi e i sospetti sono tanti. Perché Moro (l’uomo politico più importante d’Italia) che temeva per sé e per i suoi familiari, non fu adeguatamente protetto? Inoltre, se è vero che ci fu una trattativa per salvare Moro, perché fu fatta fallire e da chi? Possibile che le BR fossero così dure e pure da rifiutare ben dieci miliardi di lire messi sul tavolo dal Vaticano? E ancora: si sa che i nostri servizi conoscevano la prigione di Moro, sapevano del covo di via Gradoli e di quello di via Montalcini: perché non hanno tentato un blitz? O, meglio, chi decise di non realizzarlo e/o di bloccarlo all’ultimo momento e perchè? Perché non fu chiamato il generale Dalla Chiesa a risolvere, da esperto dell’antiterrorismo, il caso Moro? Se è vero che i brigatisti registrarono la voce di Moro che rispondeva al loro “rivoluzionario” questionario, la domanda è: c’è qualcuno, chi è e dove che custodisce nastri o videocassette? Perché proprio quando la direzione della DC (con Fanfani protagonista) stava decidendo per lo scambio di prigionieri, proprio quella mattina si diede l’ordine di eliminare un uomo che, probabilmente, si era deciso già dal 16 marzo di sopprimere? Moro fu veramente ucciso in un garage di via Montalcini e accovacciato nella Renault? Ma, domanda delle domande: chi ha veramente voluto i 55 giorni, cioè fare un finto processo a Moro e tenere in scacco e sotto ricatto un’intera nazione, con forze dell’ordine che dovevano apparire incapaci e inefficienti a fronte di Brigate Rosse che venivano presentate come uno spaventoso esercito di guerriglieri comunisti efficientissimi e imprendibili? Per quanto riguarda l’uccisione del “prigioniero”, sin da subito mi è parsa cosa davvero inverosimile che sia stato assassinato in quella posizione. Più probabile è che sia stato colpito all’impiedi o seduto e con l’assassino o gli assassini di fronte, guardati in faccia. In verità, una domanda da porsi è anche questa: perché Moro non è stato ucciso in via Fani, insieme ai cinque uomini della scorta? Evidentemente, chi progettò la strage e poi i 55 giorni di “prigionia” aveva come obiettivo principale non solo di umiliare e distruggere politicamente e poi fisicamente il futuro Presidente della Repubblica ma, allo stesso tempo, quello di tenere sotto pesantissimo ricatto non solo un’intera classe politica (non molto amata dalla maggiorparte degli italiani) ma soprattutto un intero Paese, con la minaccia non dichiarata ma effettiva di attaccare la democrazia col pretesto di combattere le BR.

In effetti, tra i tanti perché e i tanti dubbi dell’affaire Moro c’è, tra i principali, questo: chi e perché volle impedire a Moro (che già nel 1971 era stato un papabile) di diventare il naturale successore di Leone? Possiamo immaginare e ipotizzare che il chi fosse più di un’entità, ma sul perché è certamente più facile dare una risposta: perché Moro, dal suo alto scranno di capo dello Stato, avrebbe dato la sua autorevole benedizione all’operazione compromesso storico e, insomma, alla svolta politica in atto nel nostro Paese che vedeva, dopo una lunga conventio ad excludendum, il Partito Comunista nell’area del governo, poi magari in più aperta e più esplicita collaborazione con la DC fino a giungere, più in là, ad una vera e propria alternanza al potere come in ogni altro paese dell’Europa Occidentale. Dunque, tra i primi dietro  del caso Moro  ce ne sono alcuni che sono certamente indicibili, inammissibili e inconfessabili e sui quali è meglio far permanere il più assoluto silenzio e il più assoluto segreto di Stato. Di uno Stato (il doppio Stato di “Gladio”…) che, per più di un verso, è rimasto questo Stato, lo Stato di quarant’anni fa, lo Stato di sempre, con gli stessi problemi irrisolti, le stesse ingiustizie, le stesse disuguaglianze..."

La politica attuale è  secondo lei legata a quella dolorosa pagina della nostra Storia?

"Credo proprio di sì. Io sono convinto che l’Italia di Moro e Berlinguer sarebbe stata molto diversa da quella che poi è stata, tra Seconda e Terza Repubblica e che, se le lancette della Storia non fossero state fermate e la svolta di Moro avesse avuto futuro, noi non avremmo avuto il craxismo, non avremmo avuto Tangentopoli e neppure il berlusconismo. Insomma, con via Fani e il delitto Moro cambiò tutto: strage e assassinio furono compiuti proprio affinchè tutto cambiasse ma con l’obiettivo che tutto rimanesse così com’era prima e anzi peggio di prima. Io ho provato a fare un elenco di tutto quello che si cercò di ottenere per l’oggi e il domani con l’affaire Moro. Vediamo:

- utilizzare le BR per infliggere un pesante attacco e una profonda ferita alla cosiddetta Prima Repubblica nata dalla Resistenza al nazi-fascismo, con l’obiettivo di superarla e imporne una Seconda di segno conservatore e autoritario (certamente meno esaltante e della quale ci sarà ben poco per cui esultare), di cui poi si sarebbe parlato dopo lo scandalo di Tangentopoli; in realtà la Prima Repubblica iniziò la sua agonia con il corpo di Moro nella Renault in via Caetani;

- imporre a tutti gli italiani disgustati, attraverso una gigantesca operazione di mistificazione, il consenso politico per la classe dirigente e innanzitutto per la Democrazia Cristiana, proprio utilizzando l’arma della paura e del terrorismo, consentendo a una DC fortemente in crisi (che Montanelli, nel 1976, in nome dell’anticomunismo, invitò a votare turandosi il naso, tanto era corrotta…) di rifondarsi sul sangue del proprio leader assassinato, il primo grande martire della DC vittima del terrorismo rosso; una rifondazione che sarebbe avvenuta in direzione antimorotea, cioè con l’abbandono della strategia e della linea politica dell’incontro con il PCI per ritornare all’antico rapporto privilegiato con il PSI il quale, in nome del comune anticomunismo, riuscirà ad imporre il trattativista Bettino Craxi alla guida del governo negli anni ’80;

- indebolire e ridimensionare il PCI sia in termini elettorali che nei rapporti di forza con gli altri partiti, cercando di porre un argine alla sua egemonia culturale nel paese;

- indebolire, ridimensionare i sindacati (soprattutto la CGIL, tradizionalmente vicina al PCI) e ridurne il potere contrattuale al fine di essere sempre meno combattivi e sempre meno difensori della classe lavoratrice (alla quale si cercava già in quegli anni di imporre la logica economica del nascente neoliberismo); classe lavoratrice che, in quei maledetti anni di piombo, veniva interessatamente additata come fiancheggiatrice e simpatizzante delle BR e anche come genitrice di terroristi per poterla criminalizzare, colpire nelle sue conquiste e farla arretrare di qualche decennio;

- dare un colpo mortale alla Nuova Sinistra, cioè alla sinistra estrema, rivoluzionaria che, all’epoca, aveva nel cosiddetto Movimento la sua più tangibile espressione; in quest’operazione la DC ebbe come alleato-complice il PCI di Berlinguer che scelse di fare da mannaia e da boia sia perché l’ultrasinistra era la sua spina nel fianco per le dure critiche alla politica del compromesso e dei sacrifici e sia perché, nel “disperato” tentativo di dimostrare che i brigatisti non avevano nulla a che vedere con il PCI (indicato da più parti come il loro padre), preferì scegliere di fare di tutta l’erba un fascio e di dire basta all’estremismo una volta per tutte, con tanto di “autocritiche” degli Amendola, dei Bufalini, dei Pecchioli e dei Lama; e così quelli del Movimento non erano simpatizzanti e fiancheggiatori delle BR solo per i partiti e i giornali di centro-destra e comunque conservatori, ma lo erano anche per i comunisti: in quel ’78 la germanizzazione, la criminalizzazione e la repressione dei militanti del Movimento, già ben avviate nel ’77 con tutto quel che di drammatico era avvenuto, proseguirono in maniera ancora più decisa e pesante fino a condurre a morte lenta la Nuova Sinistra e, quel che è peggio, fino a condurre alcuni militanti alla scelta della clandestinità e della lotta armata come unica alternativa di lotta politica nel nostro paese, e tantissimi altri a ripiegare nel privato visto che ormai il pubblico, il politico era meglio lasciarlo ad altri;

- con l’operazione Moro si volle porre fine al lungo Sessantotto italiano e dare inizio a un contro o anti-Sessantotto che avrebbe dovuto consentire alla classe dominante borghese e alla sua espressione politica al potere di riprendersi la rivincita e, a poco a poco, riprendersi tutto quel poco che era stata costretta a concedere ai lavoratori e alle masse popolari (dopo tante dure lotte) proprio in virtù dell’indebolimento e del ridimensionamento dei partiti di sinistra e dei sindacati sempre più in difficoltà nella difesa dei più deboli della società; si tratta di un’operazione che è proseguita fino ai nostri giorni e che è stata favorita anche dal crollo del comunismo di tipo sovietico e dall’avvento della globalizzazione più selvaggia e più sfrenata di questi ultimi venti anni, oltre che dall’Europa neoliberista e tecnocratica delle banche e della finanza (presagita da Moro nel carcere) e dalla crisi della rappresentanza dei partiti della sinistra e dei sindacati, per cui è stato possibile spazzare via l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (del 1970), realizzando, in tal modo, il sogno della classe padronale (come si sarebbe detto una volta);

- con l’affaire Moro si mise in pratica il tentativo di silenziare e passivizzare l’opinione pubblica più agguerrita, di costringere, di fatto, tante coscienze critiche a preferire la sicurezza della vita privata, del privato e ad allontanarsi sempre più dalla vita politica, dal politico e, dunque, portare, anche se lentamente, alla morte della coscienza, al conformismo, all’omologazione più disperante nella consapevolezza coatta che la politica è meglio che sia cosa loro, cioè di una ristretta cerchia, di un’elite borghese neoliberista e arrogante che, nel suo delirio di onnipotenza presume e pretende di essere lei sola,  l’unica  capace di governare;

- grazie al brigatismo e all’operazione Moro fu messo in atto un durissimo e ingiusto attacco agli intellettuali, o meglio a certi intellettuali, a quelli che come Sciascia e Moravia e pochi altri ebbero il coraggio di non adeguarsi supinamente alla logica e alla narrazione del Potere, che, cioè, non si piegarono al conformismo e alla menzogna secondo cui criticare questo Stato (né con lo Stato né con le BR fu la formula con cui allora si sintetizzò sbrigativamente un certo stato d’animo) significava essere oggettivamente complice o fiancheggiatore dei brigatisti, come pure volere la trattativa per salvare Moro significava volere la fine dello Stato, la sua distruzione: proprio come dicevano di volere le BR!... Era, praticamente, come condividere quell’attacco al cuore dello Stato di cui si riempivano la bocca i terroristi…; quanto a Sciascia, ebbe, fra l’altro, la colpa di aver scritto Todo modo e, pertanto, gli attacchi alla sua persona furono davvero al limite della decenza;

- si cercò di silenziare, di mettere il bavaglio alla stampa legata alla Nuova Sinistra e ai suoi piccoli partiti, come DP (Democrazia Proletaria) e PDUP (Partito di Unità Proletaria per il Comunismo) appunto col pretesto del terrorismo di sinistra, del terrorismo rosso che era figlio del PCI e di quell’estrema sinistra nata dalle lotte del Sessantotto: davvero memorabili, per es., gli editoriali e gli articoli di commento di analisti come Alberto Ronchey (sul Corriere della Sera) e Alfredo Vinciguerra (sul Popolo);

- con l’affare Moro si mise in atto un vero e proprio colpo di Stato, con prove di regime autoritario (la democrazia autoritaria di cui parlava la Nuova Sinistra) fatto di militarizzazione del paese, leggi speciali liberticide, grandi retate, repressione indiscriminata dell’ultrasinistra, coprifuoco non scritto, giornalisti che si autocensurano per senso di responsabilità, sindacati e partiti di sinistra sotto ricatto, Parlamento e magistratura alquanto esautorati, intellettuali che firmano appelli statolatrici e scrivono articoli in difesa dello Stato, uno Stato che non si deve più criticare come non si deve più criticare la DC che ne è la massima espressione da 30 anni, perché altrimenti si è complici delle BR, si fa il loro gioco, ecc. ecc.

- il caso Moro e il brigatismo (che, poi, si sarebbe rivelato infinito, piuttosto che sconfitto) consentì, per l’oggi e per il domani, di avviare un’imponente e mistificante operazione culturale, politica e ideologica diretta a criminalizzare, demonizzare e demolire l’idea stessa di comunismo e l’ideologia marxista-leninista indicati dalle grandi firme del giornalismo come i reali padri delle Brigate Rosse, come le veri matrici appunto ideologiche, politiche e culturali dei brigatisti che, in verità, usate come mere pedine di un’orribile sporca partita giocata ad altissimo livello, mostrarono una miseria morale e una povertà culturale e ideologica il cui spessore poteva vedere solo chi, a tutti i costi, voleva inficiare l’ideologia comunista e marxista-leninista e, allo stesso tempo, conferire alle BR quel riconoscimento e quella legittimazione che per 54 giorni si negò in nome e in difesa della linea dell’intransigenza per evitare la trattativa che avrebbe salvato Moro; si negò  cioè col pretesto-menzogna che, qualora si fosse conferita attraverso uno scambio di prigionieri, lo Stato sarebbe andato in rovina…

Tutto questo le sembra poco?... Si tenga presente che alcuni di questi obiettivi sono stati raggiunti in breve tempo o nel medio periodo mentre altri si è cercato di raggiungerli fino ai nostri giorni e senza più le Brigate Rosse: non c’era più bisogno di loro, avevano esaurito il loro compito. Pensiamo agli attacchi alla magistratura, alla stampa, ai sindacati e allo svuotamento sistematico del Parlamento al fine di realizzare un sistema politico sempre più libero da tutto ciò che complica e disturba il lavoro della classe politica. Una classe politica che ha preferito quello che io definisco la morte della coscienza  e la disaffezione dei cittadini nei confronti della vita politica piuttosto che una vasta e consapevole partecipazione delle masse popolari."

Veramente un intrico di fatti e attori incredibile, che ha dell'inverosimile. Secondo lei, i giovani sono adeguatamente informati sul personaggio Moro? E quanto cercano attraverso la sua opera scritta di avvicinarsi a quella vicenda?

"Purtroppo, non vedo i giovani molto appassionati al caso Moro. Moltissimi di loro non sanno neppure chi è Aldo Moro. E questo non è colpa loro. La colpa è di un sistema scolastico che si regge ancora su programmi ministeriali arretrati e che andrebbero svecchiati. I giovani conoscono bene magari la storia antica ma non sanno quasi nulla sugli ultimi sessanta-settant’anni di storia contemporanea che, credo, vorrebbero conoscere più della storia antica… Il docente di Storia riesce appena a fare un quadro del Secondo Dopoguerra, quando va bene. Io ne so qualcosa perché la Storia la insegno e devo dire che provo sempre una sgradevole sensazione quando vedo che i giovani non possono conoscere la Storia più vicina a loro. Se non verranno cambiati i programmi ministeriali è chiaro che poi i giovani resteranno a bocca aperta se si chiedera’  loro chi era Berlinguer e chi era Moro e da chi fu ucciso… Ma credo che ci sia un forte interesse della classe politica nel non voler rinnovare i programmi ministeriali per quanto riguarda la Storia: meno i giovani ne sanno di Storia recente, meno proveranno disgusto e sdegno per la classe politica e certi partiti corrotti e scandalosi…

Se i programmi ministeriali venissero rivoluzionati, ecco che il caso Moro e lo stesso Memoriale di Moro dovrebbero essere attentamente studiati a scuola, nonostante le censure che quel Memoriale subì da parte di chi non voleva che si conoscesse nella sua completezza il pensiero di Moro prigioniero. Ma questa sarebbe davvero una rivoluzione…"

E lo sarebbe davvero. Di cosa ci accuseranno in futuro i nostri giovani? Di non averli aiutati a fare luce lì dove c'era l'oscurità e soprattutto, di non aver lavorato abbastanza affinchè la Democrazia trionfasse senza strascichi ne’ ombre. Ringrazio il prof. La Moglie per questa intrvista compendiosa e particolareggiata di una pagina della nostra Storia, andando oltre il caso Moro per arrivare fino a noi. A lui e al suo lavoro i migliori auguri da parte mia e della Redazione.

 

Ippolita Sicoli
Ippolita Sicoli
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