La parola e la poesia come forze creatrici nella cultura classica ed ebraica (seconda parte)
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Dom, Mag

La parola e la poesia come forze creatrici nella cultura classica ed ebraica (seconda parte)

Il senso della vita
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La parola e la poesia come forze creatrici nella cultura classica ed ebraica
La parola e la poesia come forze creatrici nella cultura classica ed ebraica

 

 

La lingua dei poeti Poesia è la lingua madre del genere umano: come il giardinaggio è più antico della coltivazione dei campi, la pittura della scrittura, il canto della declamazione, le parole figurate dei ragionamenti, e il baratto del commercio.


Un sonno più profondo fu la quiete dei nostri lontani precursori, e il loro movimento una danza trascinante. 
Sette giorni stettero nel silenzio dello stupore o della meditazione, poi la loro bocca si schiuse ad alate sentenze.

Sensi e passioni non parlano e non comprendono altro che immagini. È in immagini che consiste tutto il tesoro della conoscenza e della felicità umana.
 Il primo sbocciare della Creazione e la prima impressione che ne ebbe il suo cronista (Mosè)... la prima manifestazione e la prima fruizione della Natura sono racchiuse nella parola: Che la luce sia!
Ha inizio da qui la percezione della presenza della realtà.

Dio infine coronò la rivelazione sensibile della sua Gloria col capolavoro dell'Uomo. Creò l'uomo in forma divina;... a immagine di Dio lo creò.
 Questo decreto dell'Autore scioglie i più intricati nodi della natura umana e del suo destino.

Ciechi pagani hanno riconosciuto l'invisibilità, che l'Uomo ha in comune con Dio. La velata configurazione del corpo, l'aspetto del capo e l'estremità delle braccia sono lo schema visibile, al quale accediamo: ma non è che un accenno all'Uomo Nascosto in noi;

Exemplumque DEI quisque est in imagine parva (Manilio)

Il primo nutrimento fu tratto dal regno vegetale: il latte degli Antichi, il vino; la più antica arte poetica, il suo sapiente Scoliaste la chiama botanica, alla stregua della favola di Iotam e Ioas; anche il primo vestito dell'uomo fu una rapsodia di foglie di fico.
Ma il Signore Dio fece loro abiti di pelle e li mise addosso (Genesi, 3: 21) ai nostri progenitori, a cui la conoscenza del bene e del male aveva insegnato la vergogna. Se fosse il bisogno a scoprire comodità e arti, come ci si potrebbe allora stupire che la moda del vestirsi, e di vestirsi di pelli d'animali, sia potuta nascere presso gli Orientali?
Posso azzardare un'ipotesi che considero perlomeno assennata?Pongo l'origine di questo costume nella conoscenza, che Adamo trasse dal rapporto con l'antico poeta (che nella lingua di Canaan ha nome Abaddon e in quella ellenica Apollion: Apocalisse, 9: 11, l'angelo dell'abisso), della stabilità generale dei caratteri degli animali, che indusse il primo uomo a tramandare alla posterità, sotto quella pelle presa a prestito, una conoscenza intuitiva degli eventi passati e futuri.
Parla, che ti veda!
Questo voto fu adempiuto con la creazione, che è un parlare alla creatura mediante la creatura: un giorno lo dice all'altro giorno, e una notte ne dà notizia all'altra.
La sua parola di riconoscimento trascorre per ogni clima fino alla fine del mondo, e in ogni dialetto se ne ode la Voce.

Dovunque sia la colpa (fuori di noi o in noi), a noi non rimangono disponibili nella Natura che versi sconnessi e disiecti membra poetae.
Spetta al dotto raccoglierli e al filosofo interpretarli: imitarli o addirittura dare loro il senso, è compito peculiare del poeta!Parlare è tradurre da un linguaggio di angeli in un linguaggio degli uomini: tradurre cioè pensieri in parole, fatti in nomi, figure in segni che possono essere poetici o ciriologici, istorici o simbolici o geroglifici... e filosofici o caratteristici.
Questa specie di traduzione (ossia di discorso) più che ogni altra assomiglia al rovescio dei tappeti che mostra la stoffa, ma non l'arte del fabbricante, o a un'eclissi di sole contemplato nell'immagine riflessa in un secchio d'acqua.
(J. G. Hamann, Æsthætica in nuce)

Hamann è uno degli autori più cari ad Ernst Jünger... Ma nei momenti bui, che la vita ci dona, tipo una guerra l'amante della cultura e di chi comprende il valore del singolo uomo come può porsi? A rispondere sempre Jünger attraverso non solo mere e belle parole, ma attraverso azioni che dovette compiere mentre faceva parte dell'esercito di occupazione in Francia nella seconda guerra mondiale. Non possiamo tralasciare di menzionare la guerra e le guerre che furono per Ernst Jünger un campo di battaglia interiore ed esteriore dove l'uomo ha la possibilità, seppur nel terrore e in un terreno aspro e violento, di dimostrare e dimostrare a se stesso chi è realmente e come è! Riprendiamo l'intervista a Jünger:

D. A parte reperire ottime bottiglie di vino, che incarico aveva nella Wehermacht?
E.J.: "Il mio compito ufficiale di addetto alla censura era il controllo della corrispondenza. Mi passavano per le mani lettere in cui si diceva, per esempio, "Caro Fritz, la casa è stata bombardata, è bruciato tutto, perfino le tende; non resta che un rimedio: vendicarsi su Hitler". In questi casi facevo sparire le lettere e scrivevo anonimamente al loro autore consigliandoli di evitare in futuro espressioni del genere".

Con la Gestapo, che stava in rue Victor Hugo, non lontano dal Raphael, l'albergo in cui aveva sede il mio comando, ho avuto qualche problema. Quando noi della Wehrmacht chiedevamo loro di chiudere un occhio, si mostravano intransigenti e replicavano che di eccezione in eccezione tutto l'apparato sarebbe andato in rovina. Una volta mi sfuggi una risatina, al che il comandante mi riprese con un cipiglio severo: "Non rida!". Effettivamente l'apparato di spionaggio che avevano impiantato era una macchina terribile. Ma di fatto anche da loro era in uso la pratica dello scambio: voi rilasciate queste persone, noi rilasciamo queste altre. Ciò avveniva anche ad alto livello, tra Goebbels e Goering per esempio. Di Goering circolava allora la battuta significativa: "Se uno è ebreo o no, lo decido io".

D: Ha mai avuto noie per le Sue frequentazioni di artisti come Picasso, per esempio?
E.J.: "No, assolutamente no. C'era peraltro un rapporto molto schietto con gli artisti e letterati francesi. Picasso ad esempio diceva che, se le cose fossero dipese da noi due, si sarebbe potuto da subito stipulare la pace e far riaccendere le luci a Parigi."

D.: Il suo interesse per l'arte e la cultura L'ha portata anche a prendersi cura di capolavori che in guerra sarebbero andati distrutti...
E.J.: "Si, all'inizio della guerra, durante l'avanzata verso Parigi, passammo per Laon, una cittadina medievale edificata su un antico colle sacrificale dei Celti, poco lontano da Reims. Imponente è la cattedrale gotica, che si erge in cima al colle, e altrettanto impressionante è l'abbazia di Saint-Martin, dove è conservata una splendida biblioteca con inestimabili tesori, codici e libri antichi. Quando entrammo nella cittadella sul colle, la popolazione era già in fuga e tutto era stato abbandonato precipitosamente. Ebbi la sensazione di essere l'unico ad avere la consapevolezza del valore di quei libri antichi e di quei tesori, che giacevano nell'incuria più assoluta, e li feci mettere al sicuro. Nel 1972 la città di Laon mi ha invitato per ricordare l'episodio e manifestarmi la sua gratitudine. Hanno scritto: "Ernst Jünger a sauvé notre biblioteque"".

Sarebbe interessante intrattenersi a parlare dei rapporti di Jünger con i rappresentanti del potere e letterari in quel periodo tanto funesto, ma ci allontaniamo da tale argomento con le ultime due domande...

D.: Con quali sentimenti ha lasciato Parigi?
E.J.: "Cercavamo di consolarci con l'ironia e le battute tipiche delle truppe in guerra, dicendo che ci mandavano a fare le cure termali in Alsazia. In realtà la situazione si era fatta oramai drammatica. Di persona o per telefono mi congedai dagli amici francesi. Rammento la telefonata che feci a Montherlant. Florence Goult insisteva affinché io restassi. La sera in cui andai a trovarla sapevo che difficilmente l'avrei rivista. E quando verso mezzanotte volli congedarmi, lei insistette: "Ernst, il faut absolument rester"".

D.: C'è come un dolore o una strana nostalgia che circola in alcuni aspetti privati dell'esistenza che il ricordo della guerra fa affiorare. Ma che cosa pensa della celebre definizione di Carl von Clausewitz secondo la quale la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi?
E.J.: "È una sentenza grandiosa, perché afferma nei termini più efficaci il primato della politica. Ma potrei aggiungere che dopo la guerra in Germania,abbiamo assistito anche al rovesciamento della tesi di Clausewitz, cioè che la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi. Oggi, poi, lo scenario è completamente cambiato e i paragoni con la storia o con le esperienze passate non sono più sufficienti. Volendo comparare la nostra situazione a quella di una partita a scacchi, ebbene, è del tutto inutile star lì a studiare quali mosse cambiare, come spostare diversamente alfiere o cavallo, torre o re. Il fatto è che si è ribaltato il tavolo su cui stava la scacchiera: i guerrieri, i combattenti non esistono più come ceto o casta, è il fuoco non viene più dai cannoni, ma è diventato assoluto. Ci stiamo avvicinando al caos e con esso a dimensioni cosmiche a cui non c'è Clausewitz che abbia pensato".


Ma ritorniamo al nostro tema principale: POESIA, PAROLA, LETTERATURA a parlare sempre Ernst Jünger:

"L'ondata di immagini favorisce un nuovo analfabetismo. La scrittura è sostituita dai segni, si può osservare il peggioramento dall'ortografia. Ne consegue l'involgarirsi della grammatica. D'altro canto gli scribi, anche se in numero sempre minore, divengono sempre più indispensabili di quanto non fossero nell'antichità fino ai tempi di Lutero, e non solo in ambito politico e culturale, ma, in misura ancora maggiore, nella sfera del culto. La diffusione alessandrina del sapere, per mezzo di enciclopedie, archivi, biblioteche e musei, dunque, in ultima analisi, della scienza quanto tale, rimane secondaria. A ogni livello è possibile una trasformazione, così come la morte è possibile ad ogni istante.

Ma Ernst Jünger così appassionato di poesia si è mai occupato di poesia? Ebbene si, lo ha fatto, ma ha pure distrutto le sue opere... ad eccezione di una che rimane perché inviata in lettera ad Alfred Kubin che così rispose:

"Se l'anima tua e il tuo cuore restano sgomenti/dinnanzi ad abissi che mai alcun occhio ha scrutato/ buttati, la tua caduta sarà benedetta/ e ovunque ti abbraccerà la verità".

Ma ora ci occuperemo di uno Jünger poco noto, di uno Jünger che introduce libri! Lèggiamo adesso la prefazione di Ernst Jünger a BANINE "I MIEI GIORNI NEL CAUCASO":

Cara Banine,

vengo a sapere dal nostro amico Francois Lagarde che sta preparando la riedizione del suo "I miei giorni nel Caucaso". È una notizia che mi rallegra perché ricordo il piacere che ho provato alla prima lettura di questo libro, poco dopo la seconda guerra mondiale. Ho cercato nella nostra corrispondenza, che copre una quarantina di anni, la copia che le avevo scritto il 17 luglio 1946. Forse se la ricorderà. Eccola.

Ho letto il suo "I miei giorni nel Caucaso" in notti così calde che si poteva benissimo avere l'illusione di credersi sulle rive del Mar Caspio. Nel suo libro ho notato due grandi temi del nostro tempo: da una parte la caduta del vecchio mondo, dei legami, dei vecchi rapporti; e, dall'altra, l'emergere di una vita elementare, di una nuova libertà, divenute possibili e probabilmente accelerate dalla prossimità delle rovine. L'angolo di Europa o meglio di Asia che costituisce il teatro delle sue descrizioni apporta nuove luci e la tavolozza di colori di un universo straniero.

Avevo, in aggiunta, il piacere di incontrare una volta di più l'autrice in persona, immaginandola sul suo divano, come in rue Lauriston, mentre si diletta di un moka molto forte e di dolciumi, sempre all'avida ricerca della verità sugli uomini e sulle cose di questo mondo. E tocca anche molti tabù che preferisco tenere nell'ombra. Mi ha fatto riflettere anche la sua ironia, come pure le condizioni sociali e personali da cui hanno tratto origine.

Dopo che il suo libro mi ebbe dato piacere e la gioia dei ricordi, l'ho sistemato nella mia biblioteca: quando lo rivedrò, penserò ancora spesso a Lei. Mi farebbe piacere ricevere una sua immagine da inserire tra le sue pagine.

Non essere stato dimenticato dai mie amici francesi in quei giorni passati mi aveva particolarmente commosso. Ho sfogliato or ora questo "I miei giorni nel Caucaso" oramai ingiallito nel tempo, con la sua dedica, e ritrovo confermata la mia prima impressione. Sarà una gioia ancora maggiore vedere presto questo libro nella sua presentazione.

Non resisto al desiderio di aggiungere ai miei auguri di successo al suo libro alcune considerazioni personali; ma le formulerò in poche parole. Dice una nota citazione: le pallottole ed i libri hanno il loro destino. Ma anche le città hanno il loro destino e lo determinano a loro volta: la cosa vera è in particolare per Roma e Parigi. L'ho sperimentato di persona, come innumerevoli altri.

La nostra conoscenza aveva avuto inizio con Nani, il suo primo romanzo, che mi aveva mandato dopo aver letto i miei libri: Nami si svolge nel Caucaso, il luogo dove è nata. Così due autori entrano in normale relazione. Poco normali erano però il luogo e l'epoca: Parigi durante la Seconda guerra mondiale.

Ebbene, poco dopo aver ricevuto il suo romanzo fui mandato in missione proprio nel Caucaso: curiosa coincidenza.

Al di là del pretesto ufficiale della mia missione, si nascondeva un obbligo: quello di determinare lo stato psicologico dei generali di comando. Ben presto però mi accorsi che avevano ben altre preoccupazioni che quelle di natura politica. E feci ritorno a Parigi.

Sul mio soggiorno in questa città si è formata una leggenda, secondo la quale vi conducevo una vita simile a quella degli ufficiali di Annibale accusati di "essersi addormentati nelle delizie di Capua". In realtà il pericolo vi era più marcato che nel corso della Prima guerra mondiale e, soprattutto, più sinistro - per non parlare dei conflitti interiori. Infatti non si trattava più di una guerra nazionale, ma di una guerra civile su scala mondiale. Non era più la situazione del viaggiatore sentimentale di Sterne, che a Calais viene incidentalmente a sapere che il suo re è in guerra con quello di Francia; e neanche la situazione delle guerre del secolo scorso oppure di Verdun.

Per questo penso con tanta maggior gratitudine agli incontri che ebbi la fortuna di fare a Parigi in quegli anni difficili: dovevano fondarsi umanamente, spiritualmente, moralmente, su una base particolarmente solida. Lo testimonia il fatto che danno i loro frutti ancora oggi.

Ernst Jünger

Ed ora uno Jünger ancor più inedito conosciuto attraverso un libro dove viene pubblicato un carteggio tra Jünger ed una poetessa che è stata denominata la più importante del XX secolo. l carteggio tra Helena Paz Guerra e Ernst Jünger è stato recentemente ricostruito in un libro, Helena. "La soledad en el laberinto", a cura di Elsa Margarita Schwarz Gasque e María del Carmen Vázquez Martínez (2020). Helena aveva 22 anni e Jünger la aiutò a pubblicare alcune poesie e a farla scoprire: "Le farfalle sono più forti dei demoni" disse Jünger alla poetessa e quest'ultima denominò l'autore il "mago bianco", e la giovane poetessa è Helena Paz Garro. Tra i rari cultori della poesia di Helena, figura, nel ruolo del patriarca, Ernst Jünger. Helena, in una intervista, racconta le circostanze del loro incontro, che sfociano nel medianico:
"Avevo un'orribile macchia sulla faccia: uno psichiatra mi disse che non si poteva curare. Fu un amico a consigliarmi, 'Leggi Jünger, ti curerà'. Lessi i suoi diari di guerra scritti durante gli anni dell'occupazione: guarii. Decisi di ringraziare quell'uomo. Mia mamma conosceva una donna dell'alta società, Betty Boutour, il cui marito era occupato nell'ambasciata del Messico. Betty era una tizia molto snob, che invitava nel suo salotto soltanto personaggi di fama. Betty disse a mia madre, 'Conosco l'indirizzo di Jünger, ma se lo do a sua figlia, lui non le risponderà e lei resterà delusa, inquieta'. La prima lettera che ho scritto a Jünger contava quaranta pagine".

I due si conobbero...

Helena Paz Garro nasce nel 1939, lo stesso giorno della madre, il 12 dicembre, Elena Garro, brillante, fascinosa, virile, anticonformista zarina della letteratura sudamericana del Novecento, e muore il giorno in cui il padre, il Nobel per la letteratura Octavio Paz, avrebbe compiuto cento anni, il 31 marzo del 2014. Crescere tra due Moby Dick non fu assolutamente semplice... e la poetessa ad Jünger confida anche i tormenti e le problematiche derivate pensieri antitetici e scelte opposte dei suoi genitori in politica che ebbero ripercussioni forti sul modi di vivere... Interessante è seguire l'intera vicenda... Una poesia di Helena:

Nella mia gabbia di vetro 
assediata da sguardi con gli spilli 
e teschi in rovina 
le dita di un cielo altro dal nostro 
le dita misericordiose della Vergine 
toccano le mie piaghe 
da cui sgorgano fonti d'acqua cristallina

Così scrive Jünger ad Helena:

"Nel secolo in cui abitiamo, che annuncia continuamente la sua fine, il poeta vive, come ha profetizzato Hölderlin, 'in un tempo di miseria'. Ecco perché le poesie sono un dono di particolare valore. Il giorno in cui nella lettera di un amico scorgo una poesia che mi rasserena l'animo, è sempre un buon giorno. È ciò che mi accade da molti anni grazie a te, cara Helena. Le tue poesie riscaldano l'atmosfera, come se in casa fosse acceso un fuoco, mentre fuori impera l'inverno. Proprio oggi leggo una selezione delle tue poesie. Le spargi come un mazzo di fiori, quando ne slacciamo il nastro: e con quale leggerezza! Sono quaranta, le ho ordinate. Alcuni versi sono molto belli. A quanto pare, per te le poesie sono come le foglie che cadono dall'albero: benché il vento le porti via e si ostini a spezzarle, esse formano, tuttavia, un tutt'uno".

Abbiamo bisogno di poesia e parole poetiche! Il nostro animo ne ha bisogno! Abbiamo necessità di abbeverarci della Parola! Abbiamo bisogno di elevarci, di ergerci, sollevarci, spiccare il volo... Solo così la nostra esistenza può non essere frantumata, ma cercar di diventare una unità con l'Uno...

Ma in che rapporto possiamo scorgere la parola con il suono? Sempre Jünger:

Nel rapporto tra suono e parola entra in gioco anche la prospettiva, nella misura in cui è possibile mettere in primo piano sia l'una che l'altra delle due grandezze. Dal punto di vista della parola non c'è dubbio che al suono spetti un ruolo ancillare. Ciò risulta evidente dal modo in cui il suono lavora sulla parola come un mezzo ora più fluido ora più tenace. La storia della lingua e, in tempi più recenti, l'assimilazione di numerose parole straniere offrono buoni esempi al riguardo. Come eccezione sarebbe da considerare la pura onomatopea, in cui la parola scaturisce direttamente dal suono. Poiché tali coniazioni, come le usa ad esempio Bürger nelle sue poesie, si presentano all'insegna della gratuità, esse conferiscono facilmente alla dizione un che di giocoso o anche un tratto anarchico. La vera libertà nel linguaggio umano risiede però nel fatto di non essere eco o imitazione; e la parola non nasce come quelle figure sonore che si possono ottenere sfiorando una lastra di vetro con l'archetto di un violino.

La situazione cambia specularmente ove si metta il suono in primo piano. Mentre le lingue appartengono alla storia, i suoni si pongono al di fuori di qualsiasi computo temporale. Le lingue vivono come le piante, ma i suoni appartengono, al pari della terra in cui le piante hanno radici, alla sostanza originaria del mondo. In quanto simbolo, pura immagine, il suono- e la vocale in particolare - è perciò esterno alla lingua e alle vicissitudini. La lingua si avvicina più o meno a questo livello semantico, e le parole risaltano più o meno nitide nello specchio dell'archetipo. [...] una descrizione fa uso di parole, mentre l'archetipo è per essenza indescrivibile e può essere indovinato solo a partire dai suoi effetti...

Ora qualche epigramma di Jünger:

Lo spirito sostanziale si riconosce dal fatto che risparmia gli aggettivi. La prima frase del Genesi è senza aggettivi.

In una prosa che rinuncia alle conclusioni le frasi devono essere come semi.

La lingua intreccia i pensieri come fili e plasma le immagini come argilla...

La parola fu all'origine, è e sarà per l'Eternità! La Parola ci plasma, ci contiene, ci sana ed è vita della vita...

Il video che vi ripresentiamo è con Enrico Magnelli grazie al quale abbiamo avuto modo di fissare la nostra attenzione sugli argomenti che vi abbiamo presentato. Eccelso invece è il video con Lui e quanto ci dice ed insegna.

Enrico Magnelli: è Professore di letteratura greca presso l'Università di Firenze. Si occupa di poesia ellenistica e tardoantica, commedia attica, metrica greca, letteratura giudaico-ellenistica, poesia greca bizantina e umanistica, storia della filologia classica.

VIDEO. La parola e la poesia come forze creatrici nella cultura classica ed ebraica. Con Enrico Magnelli

 

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 L'ASSOCIAZIONE #EUMESWIL​ è un’associazione culturale non-profit, sorta a Firenze e Vienna con lo scopo di studiare e diffondere l’opera, il pensiero e lo stile esistenziale di #ErnstJünger​.

L’Associazione si fonda su tre pilastri:

CULTURA - Intesa come coltivazione di sé.

TRADIZIONE - Come l'eredità spirituale dei nostri antenati.

RETTITUDINE - Come modo di essere e non di apparire.

Visita il Sito: Associazione Eumeswil

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