"E' chiaro che un'emergenza come questa" di Covid-19 "vissuta a inizio anno ha trovato tutti, a tutti i livelli, impreparati. Impreparati nella gestione del rischio e nella gestione operativa anche banale.
Qui forse la nostra capacità di interpretare le cose - soprattuto di noi italiani che abbiamo dovuto fare da rompighiaccio per gli altri - all'inizio ci ha aiutato un po'". A sottolinearlo è stato il virologo Massimo Clementi, professore di microbiologia e virologia all'università Vita-Salute San Raffaele di Milano, intervenuto al Meeting di Rimini, in uno spazio dedicato a 'Nuovi percorsi per ridurre il rischio clinico'.
Clementi ribadisce che un messaggio da lanciare è "l'importanza di fare squadra quando si affrontano problemi di rilevanza notevole, nel momento dell'emergenza". E poi si sofferma su uno strumento strategico, quello dei protocolli: "Quando ero giovane - racconta - mi è capitato di frequentare insieme ad altri colleghi ospedali universitari famosissimi allora" all'estero.
"Nel confronto qualitativo con i nostri migliori ospedali noi giovani laureati trovavamo che non ci fossero grosse differenze. Ma una cosa era evidentemente diversa: la presenza di protocolli per tutto, per aspetti importanti, ma anche per aspetti pratici di bassa rilevanza. Tanto che noi, non preparati a questa cosa, avevamo addirittura fatto qualche ironia su questa mania del protocollo. In realtà ci stava arrivando insegnamento importantissimo: senza disporre di un protocollo, di fronte a un problema qualsiasi devi improvvisare. Con un protocollo non improvvisi".
Nel tempo, dice Clementi, "questa cosa dei protocolli clinici e operativi è arrivata anche a noi e siamo stati più abituati, anche se le popolazioni mediterranee forse sono meno ricettive su questo aspetto".
Il virologo torna sull'importanza della sinergia e collaborazione per vincere la sfida contro Covid-19. "Porto la mia esperienza personale, quella della mia istituzione, l'ospedale San Raffaele di Milano: noi abbiamo pensato che, come una delle prime cose da fare, fosse importante creare una biobanca di campioni che raccontasse la storia naturale dei primi mesi dell'infezione clinica, la archiviasse e desse la possibilità di disporre di questi campioni sia per aspetti clinici che di approfondimento scientifico. E questa è un'esperienza che coinvolge tutti in ospedale, tutti devono contribuire a formarla. Ebbene è stato un banco di prova di questa trasversalità di comportamenti che ci deve essere".