Morto Philippe Daverio. Critico senza confini, come i mondi che raccontava
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Mar, Apr

Morto Philippe Daverio. Critico senza confini, come i mondi che raccontava

Morto Philippe Daverio. Critico senza confini, come i mondi che raccontava

Cultura
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Scomparso a Milano a 70 anni. Il 3 settembre la camera ardente alla Pinacoteca di Brera. Era nato europeo: «In casa parlavamo tre lingue e due dialetti»

Philippe Daverio
Philippe Daverio

 

Philippe Daverio era nato a Mulhouse, in Francia, il 17 ottobre 1949 da padre italiano e madre alsaziana.

Ricordiamolo con il suo sorriso arguto e bonario, con il suo farfallino multicolore e con quell’aria felina, da eterno ragazzo mezzo italiano e mezzo francese, certamente europeo poliglotta dalla nascita (la sua fortuna) e rammentiamo quanto ha raccontato dietro a uno schermo tv, una cattedra o passeggiando in un museo. Stava male da qualche mese e nella scorsa notte è scomparso Philippe Daverio, alsaziano di Mulhouse (1949), città contesa sin dai tempi degli Asburgo, dove aveva studiato «in maniera rigorosa in un collegio episcopale» con i suoi fratelli, lui, quarto di sei figli di padre italiano (di nome faceva Napoleone, ma un prozio aveva fatto le Cinque giornate) e madre alsaziana. «Eravamo degli europei di base. In casa si parlavano tre lingue e due dialetti; mio nonno fece il servizio militare a Berlino e il mio prozio a Parigi. Siamo venuti in Italia per una operazione immobiliare a Varese di mio padre». Un’educazione un po’ ottocentesca che si conclude alla Bocconi prima della laurea: «Come diversi amici, anche loro sessantottini, non mi sono laureato. Ho dato l’ultimo esame, non la tesi».

Mai in grisaglia, si mette a fare il mercante d’arte e apre una galleria in via Montenapoleone (Napoleone lo inseguiva) a Milano, poi una sede a New York, quindi organizza mostre e dal 1972 vive a fianco di Elena Gregori, bisnipote del fondatore del «Gazzettino». Diventa il principe dei divulgatori d’arte e cultura, fuma il sigaro, beve il bevibile e dichiara di spendere volentieri per l’affitto di case spaziosissime, dove poter camminare e far stare comodi i cani. Il sindaco Marco Formentini (li presentò l’editore Mario Spagnol) lo chiama in giunta come assessore alla Cultura (1993-97). Lui — un po’ snob e un po’ giacobino — accetta ed esordisce con una giocosa installazione alla Bruegel davanti a Palazzo Reale. Seguono divertenti scorribande nelle ditte di periferia a cercare le poltroncine più adatte per i teatri milanesi. Come per altri intellettuali, quelle che paiono oscillazioni politiche sono l’esito dell’impossibilità di seguire una logica partitica: passare dalla Lega a Più Europa significa che era un europeista delle identità, un glocal. 

VIDEO: Philippe Daverio, quando diceva: «Era la Lega ad aver sposato idee daveriane» 

Dal 1999 è artefice di arguti e originali programmi televisivi: Art’è sui Raitre, poi Art.tù quindi il celeberrimo Passepartout, seguito poi da Il Capitale. Carico di notorietà diventa collaboratore di molti giornali, cura iniziative d’arte legate al «Corriere della Sera», diventa direttore di «Art Dossier» e docente a Palermo nel 2016 per «chiara fama». «Negli esami all’università, così come giurato nei premi letterari, si capisce subito se uno c’è oppure proprio non c’è — disse —. Basta annusare». 

Così come l’arte dell’ultimo ventennio è stata finalizzata alla costruzione di un capitale di visibilità attraverso la spettacolarizzazione, una figura come la sua — così carismatica, ironica e capace di raccontare — non poteva che diventare critico d’arte de facto tra i più presenti, abilissimo nel tessere narrazioni su dettagli incrociandoli con la storia politica e sociale. Preziosissimo nei dibattiti, pubblicò una lunga messe di libri («un modo libero e artigianale per guadagnare»), specie per Rizzoli, a partire da Il museo immaginato, sorta di breviario per costruirsi un proprio ideale museo. Era un «curioso» al modo settecentesco, flâneur, appassionato amateur alla scoperta delle identità dei luoghi più reconditi, degli oggetti più strani quasi eternamente a passeggio nel Giardino delle delizie, lui, che sembrava uscito da un quadro di Bosch o di Bruegel. Spesso in viaggio, ma mai per turismo, era un poligrafo, quasi un Kircher fuori epoca, il contrario dello specialista di oggi. La sua vita è stata l’attraversamento di una Wunderkammer e per questo gli piacevano anche aspetti della cultura digitale, come l’universalismo di Wikipedia, mentre sprezzava i social e il distacco dall’esperienza a contatto con un’umanistica, rinascimentale bellezza. Interpretò persino la parte di Njegus, l’impiegato di cancelleria, ne La vedova allegra di Lehár alla Scala con regia di Pier Luigi Pizzi, Scala di cui è stato consigliere di amministrazione per la Regione Lombardia. Nelle sue case c’erano sempre dei pianoforti: aveva studiato musica e sapeva suonare Mozart. Scherzando diceva: «L’Italia non è un Paese fondato sul lavoro, ma sul melodramma». Era membro di molte associazioni e ha ricevuto vasti riconoscimenti, dalla Medaglia del centenario della Accademia delle Arti del Disegno di Firenze alla Légion d’honneur concessa dalla Francia. Come tutte le persone colte e di carattere fu al centro di polemiche, spesso risolte con il sorriso che largamente e con generosità elargiva a tutti, amici di una vita o persone appena conosciute. Membro del Comitato scientifico di Brera e impegnato con l’associazione Amici di Brera nel sostegno alla Pinacoteca, questa ha oggi allestito una camera ardente in suo onore. Adieu Philippe; come diceva Njegus nel secondo atto, «purtroppo i conti non tornano mai». (fonte: Corriere.it)

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