L’albero di vita e la carita'
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Dom, Apr

L’albero di vita e la carita'

Il senso della vita
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La Carita'
La Carita'

 

Dio è morto dice il ‘900 e qualcuno in sordina potrebbe replicare è pure risorto!

Se il ‘900 può considerarsi il secolo il cui la spiritualità arretra è anche il secolo, come ha tentato di fare più volte il Maestro di Wilflingen: Ernst Jünger, che la scienza e soprattutto la scienza a partire da fine ‘800 ha dato prova tangibile dell’esistenza del mondo invisibile. Prendiamo in considerazione tutte le onde che invadono il nostro mondo! Non solo le onde del mare, i cavalloni, ma le onde delle radio, oppure i raggi: raggi X. Consideriamo la magia di un cellulare: quanta memoria contiene! Ed i messaggi che ci inviamo continuamente e le mail come si muovono da un telefono all’altro? In modo invisibile, impercettibile!

Riusciamo a vedere la luce? Riusciamo a vedere il suono? Eppure Ernst Jünger, nel corso della sua lunga opera, ha dato prova che può anche essere definito come lo scrittore delle: “CRISTOLLOGRAFIE DELL’INVISIBILE”.

Con il nostro ciclo di incontri con "Pneuma, Verbum et Imago: vie verso la conoscenza e la comunicazione" ci piacerebbe apprendere ad entrare in contatto col mondo invisibile che ci circonda, ci piacerebbe aprire gli occhi, fissare lo sguardo e l’ascolto su tale realtà!

Respiriamo eppure l’aria non la vediamo. L’etere ancor meno eppure chi è a contatto con l’etere è pervaso dal riso!

La vita terrestre priva di respiro non è possibile.

La parola è all’origine, "in principio era il Verbo" e prende sostanza dal suono! Le immagini dal pensiero.

Soffermiamoci sul respiro avvertiamo l’aria solamente quando una bolla si compone e ci infastidisce i polmoni o lo stomaco facendoci male, comprimendoci. Una candela priva di aria, si spegne…

Compariamo adesso il respiro, le stagioni ed un albero del nostro clima. Quante somiglianze possiamo rinvenire? Una infinità. Più siamo in grado di espandere il nostro pensiero e più noteremo similitudini.

Non solo tutte e tre le forme sono racchiuse e scandite dal numero quattro, ma tutte e tre le forme si nutrono di momenti di pieno e di vuoto e di crescita e decrescita. Queste forme sono - inoltre- forme circolari e possono ricordarci il mondo materiale, il mondo poetico, biologico, Celeste...

Possiamo allora giungere a considerare la realtà come un deposito di strati dal più pesante al più leggero. Il cristallo è purezza ed alla luce ci mostra i suoi prismi, i suoi mondi!

Ecco che più l’occhio e l’orecchio seguono l’invisibile e più vi sono possibilità che questo mondo si renda visibile.

Ritorniamo all’albero! Nel giardino dell’Eden sappiamo della presenza di due alberi: della conoscenza e di vita eterna! L’albero della vita è simbolo di rinnovamento e proprio in questi giorni le nostre vite hanno la possibilità di rinnovarsi nel mondo che a noi pare invisibile adesso preferiamo lasciare la parola scritta ad Ernst Jünger sul: "L'albero" e la parola parlata a Don Curzio Nitoglia su “La carità” perché proprio in questi giorni stiamo vivendo l’esperienza di un amore invisibile ed il crocifisso, spesso ligneo, ne è l’emblema.

La cultura può essere considerata quell’insieme di conoscenze che unite all’esperienza servono a far crescere, fruttificare la pianta “uomo” la più complessa e complicata esistenza sul pianeta “Terra” per la sua totale possibilità di agire in modo autonomo, se riesce a crescere e a collegarsi alla “Parola”, fondo originale e farne buon uso…

Un uomo che non ha strumenti per usare la “Parola” ed entrare in contatto è destinato ad allontanarsi dal mondo del fondo originario e a perdersi. È in pericolo… Avverte il vuoto, il non senso lo invade, come conosce e comunica? Come chiede correttamente? “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Poiché tutti coloro che chiedono riceveranno, Tutti coloro che cercano troveranno, A tutti coloro che bussano verrà aperto", ci suggerisce la sacra Bibbia. Certo occorre sconfiggere la pigrizia mentale e la paura recondita del rifiuto chiedendo o di porre domande sbagliate o inadeguate…


Il testo di Ernst Jünger per motivi di lunghezza non è riportato in maniera completa,ma comunque è molto lungo... è da potersi considerare come poesia, riflessione, meditazione, un ampio respiro:

“In ogni lingua c’è un tesoro di parole che ne costituiscono la sostanza. Di tali parole vive la poesia. Come al rintocco di una campana, esse risvegliano nell’uomo un’aura di risonanze. La parola “albero” è una di queste.

L’albero è uno dei grandi simboli della vita, forse il più grande dei suoi simboli. Perciò in ogni tempo è stato ammirato, venerato e anche adorato da uomini e popoli. Venerabili apparivano l’altezza, la profondità, l’età plurisecolare, la figura maestosa, generosa di protezione.

I re persiani facevano adornare antichi platani di collane d’oro e nominavano guardiani al loro servizio. Nelle querce antichissime i Germani adoravano il padre dell’universo e nel frassino contemplavano il cosmo. Dalle fronde della quercia sempreverde i Druidi tagliavano il fogliame per il vischio con falci d oro, per incoronarne le corna di tori bianchi; il tasso l’albero dei morti, ombreggiava le tombe dei cimiteri celtici. Nello stormire dei boschi sacri a Didona le sacerdotesse udivano la voce e il consiglio del supremo Zeus. E girando in tondo così lo lodavano:

Zeus fu, Zeus è, Zeus sarà, o Tu potente Zeus!

Ancora oggi in un mondo privo di dei, ci assale un trepido timore all’udire il vento che va e viene nel bosco, che ora increspa appena le foglie e poi risuona sugli alti fusti come sull’arma celeste. Ecco che, toccato più profondamente che dagli accordi dell’organo, si risveglia in noi qualcosa di antico e da tempo dimenticato.

Fluttua a tratti sulle cime come prendesse respiro e si gonfia
in un’onda e mugghia
e si allontana -
e si fa muto -
e sibila.

Così Peter Hille, un poeta poco familiare e da tempo dimenticato che spesso, “muscoso sognatore”, rincorreva al riparo del bosco. Nella sua vita, come molti anni prima e dopo di lui, cercò nel bosco conforto e libertà. Fratello uomo ci ha già più volte abbandonati, fratello albero mai.
Ma che cos’era ciò che, in quello stormire, ci dava conforto? Invano cerchiamo di ricordare quella parola pietosa quando “su tutte le vette regna la calma” e il canto ammutolisce. Allo stesso modo, alla luce del giorno, cerchiamo inutilmente di spiegarci il significato di un sogno; non ne troviamo la chiave. Dobbiamo tornare a sprofondarci nella notte - è lì che ci aspetta. Il poeta la presentisce:

Aspetta un poco! Presto anche tu avrai riposo

L’albero appartiene al padre o al mondo della madre? Non si può dare risposta con una frase. Come vorremmo attribuire l’altezza al padre, così la profondità alla madre. Sotto la chioma troviamo riparo, sicurezza nell’intreccio delle radici. I rami si allungano come braccia che tendono verso il cielo, mentre le radici affondano nel regno della Terra.

All’occhio si mostra ciò che respira alla luce, gli si cela ciò che si nutre dei succhi della Terra. Ma è la forza di una sola e identica essenza quella che conquista qui l’altezza e là la profondità. Ciò che vediamo nell’altezza e ciò che la profondità ci nasconde è cresciuto da un unico punto e si divide tra il giorno e la notte come un’immagine che si specchia nel suo riflesso.

Immagine e riflesso dispiegano ed esibiscono un prodigio; rimandano a un unico essere che definisce le dimensioni. Quando attraversiamo un bosco, quando osserviamo un vecchio albero, c’è sempre una terza presenza, che unisce immagine e occhio, altezza e profondità.

Da sempre l’uomo, pensando al proprio venire e andare, ha preso l’albero come modello. Quando pensa a coloro che furono prima di lui, discende con lo spirito alle radici. Là sono gli avi, la cui immagine presto si perde nel mito e poi nell’humus. Dove è vivo il culto dei padri e degli avi, si ha cura anche dell’albero.

Quando viene alla luce un essere umano, un occhio nuovo si schiude all’albero della vita. Molti furono prima di lui, che riposano nella Terra, e dopo di lui molti tenderanno verso la luce. Presto anch’egli passerà tra gli avi, sarà avo e progenitore, perché breve è la vita del singolo, come già lamentano i Salmi (“Ricorda quant’é breve la mia vita. Perché quasi un nulla hai creato ogni uomo?” Salmo 88,48); è come l’erba che viene falciata la sera, o come un granello di sabbia che cade nella clessidra. In lui si intrecciano però la serie degli avi e la diramazione dell’albero genealogico, come le radici e i rami della lunga discendenza che si perde nell’oscurità dei tempi.

L’albero della vita è, come la clessidra, un simbolo dei tempi che si intersecano nell’eterno- è qui la sezione, nel colletto della radice. Qui è il punto che chiamiamo attimo; al di sotto di esso vediamo estendersi il passato, al di sopra il futuro.

Nell’albero ammiriamo la potenza dell’archetipo. E abbiamo l’impressione che non solo la vita, ma l’intero cosmo si dispieghi nello spazio e nel tempo seguendo questo disegno. Lo stesso modello si ripete ovunque volgiamo lo sguardo, fin nelle venature di una foglia minuscola, fin nelle linea di una mano. Lo seguono i fiumi che scorrono dallo spartiacque verso il mare, il flusso del sangue nelle vene e nelle arterie, i cristalli nei crepacci, i coralli nelle scogliere.

Nell’archetipo si avverte l’incomprensibile che si dispiega nel fenomeno, l’attimo protegge e nasconde il sovratemporale, un pò come l’asse materiale della ruota nasconde quello matematico. La pienezza del tempo si nutre dell’atemporale, il movimento repentino dell’immobile. Così anche lo sviluppo dei più piccoli granelli dei semi si ordina in accordo a un indispiegato che non è punto spermatico, ma pneumatico. Di qui solo si danno alto e basso, destra e sinistra, intreccio involuto e sviluppo dei rami, vita e morte. È un prodigio che si può afferrare solo nella parabola, come quella del granello di senape (“Un’altra parabola espose loro: Il regno dei cieli si può paragonare a un granello di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano tra i suoi rami”, Mt 13,31)

L’albero si presenta dunque come un archetipo non solo dell’albero della vita, ma anche nell’albero del cosmo. Lo vediamo in tutti gli elementi, nella pietra, nel fiume, nel fuoco e anche nella volta stellata.

Non c’è dunque da stupirsi se nel regno vegetale l’albero non rappresenta un culmine raggiunto dopo un’ardua e lunga ascesa. Così, forse in modo troppo umano, si vede l’uomo come la meta e il coronamento del regno vivente.

No, vi sono svariati generi che tendono all’albero e a loro modo lo rappresentano. La quercia, il pino, la dracena, l’eucalipto sono “di per sè alberi; lo sono come essenza e non come specie, hanno con esso una parentela spirituale prima che di sangue. Ogni pianta ha in fondo una inclinazione, una potenzialità a divenire albero. Già nel fungo, che nello spazio di una notte spunta dal micelio, se ne incarna il principio. Famiglie che conosciamo solo come specie di piante erbacee, come la felce e l’equiseto, crescono in altre latitudini o crebbero in altri tempi in forma d’albero. Possiamo facilmente pensare come alberi certe erbe, come il papiro. Alcune piante arboree, come il lillà e il salice crescono sia nella forma di cespuglio che di albero. In un giardino vicino a Gerico questa primavera fui sorpreso alla vista di un possente albero di cui l’abbondanza dei fiori scendeva a cascata in una spuma viola. Era la boungavilla che fino ad allora conoscevo solo come rampicante. Più in là, nei deserti, sui monti o nell’alto Nord, gli alberi intristiscono in arbusti o forme nane, come la nostra betulla negli altopiani paludosi della Lapponia. Infine il giardiniere sa dare a un cespuglio l’aspetto dell’albero tagliandoli i polloni laterali o, al contrario, trasforma un albero in un cespuglio mozzandone la cima.

E se noi, malgrado tutto, abbiamo un saldo concetto di albero, è perché la nostra rappresentazione impone un ordine alla natura. Questa nostra rappresentazione di un albero è strettamente connessa con ciò che gli antichi chiamavano fisiognomica. Vediamo nell’albero una grandezza in cui la natura acquista individualità, meglio: personalità; la sua crescita ci dà testimonianza della vita in un senso che va oltre quello puramente vegetativo, anche oltre quello zoologico. Si impone come immediatamente una sensazione di dignità e di doveroso rispetto.

……

Come l’animale veste l’uomo della sua pelliccia o della sua lana, così il legno non solo lo riscalda con il fuoco, ma lo avvolge in un ampio riparo. Gli serve da tavolo, da barca, da letto dove si riposa si concepisce si nasce si muore, da culla e infine da tomba. Ancora oggi “nel legno” ci sentiamo davvero un guscio domestico, sia nella stanza rivestita di pannelli e arredata di mobili antichi, sia nel grande Nord, dove ancora si costruisce in legno, nella notte invernale. Solo qui ci si disvela la vera vita del legno, lo spirito del bosco e dell’albero che lo animano, il suo incanto silvestre, che nemmeno lascia può intaccare. Si desta nel cammino, quando sulla brace si sfogliano gli anelli annuali come pagine di un libro senza nome. Allora anche il ricordo dell’uomo risale al fondo di ciò che solo si presagisce, all’indistinto.

Lungo le coste o tra i monti del boscoso nord, sotto il capanno delle barche o nella baita si risveglia la memoria di tempi in cui ancora l’uomo non sapeva tagliare il legno e si serviva del fuoco per lavorarlo. Allora non c’erano assi né tavole, solo il tronco intatto da sega o da pialla, sia che venisse utilizzato per costruire in blocchi, sia per una piroga o per una barca.

Con le intemperie il legno si disfa, ma non perde la sua forza prodiga e vitale. Per questo pare a molti più adatto per l’ultima veste, l’ultimo involucro, di quanto non sia il sarcofago in pietra. Nel “nos habetit humus” la traccia dell’uomo si perde in modo più anonimo e consolante.

Ma resta qualcosa che non si corrompe. Presso gli antichi la cassa mortuaria si chiamava bara [ Bahre], bara - la parola ha due significati, perché non vuol dire solo qualcosa che si trasporta, ma che pure trasporta e porta a destinazione, a compimento. Perciò fu considerata, da popolazioni anche molto lontane tra loro, come imbarcazione e veicolo per la via cosmica.

Nell’isolamento prende risalto la peculiarità. Se si vuole ammirare l’albero e la sua figura, come la quercia di Giove nel bosco di Fontainebleau, bisogna dargli spazio.

In natura si presentano tutte le gradazioni di densità, dal più fitto al più rado - dall’impenetrabile foresta vergine al boschetto diradato, fino alle selve e ai prati che costeggiano i fiumi, alle aride steppe, le praterie e le savane, gli aperti vivai dei paesi prealpini, come ce li descrive Felix von Hornstein nella sua opera sui nostri boschi e la loro storia. È forse in quei tagli soleggiati dove si è mantenuto un patrimonio forestale plurisecolare che l’albero riesce a produrre l’impressione più bella in mezzo si suoi simili. Lì il bosco si leva in nuova potenza che unisce antica esperienza e trionfo. La forza che unisce spazio e tempo si fa percettibile come al cospetto di un senato o di un’assemblea di sovrani.

Dove l’albero è sopravvissuto in piccoli gruppi con il loro sottobosco nel cuore delle distese dei campi, la terra coltivata ne è vigorosamente ravvivata. Qui ci si sorprende anche la vista di piante e di animali cui queste ultime isole di vegetazione selvaggia [ Wildnis ] offrono ancora dimora, nutrimento e riparo.

Il filare non è semplicemente un punto di transizione verso l’isolamento, quanto, più decisamente, un rafforzamento di questo. La sua vista evoca l’idea di confine, il più delle volte di un confine difeso. In natura lo si trova là dove catene di pioppi, ontani o vecchi salici accompagnano il corso dei ruscelli o dei fiumi, o nelle colonne leggiadre delle palme da cocco, con cui la costa dei tropici ci saluta da lontano.

L’uomo costruttore, dispone il filare a marcare il suo territorio e la sua proprietà. Napoleone contrassegnava i ponti e le strade militari piantando i pioppi. Magnifici filari di alberi menano ai castelli, alle chiese meta dei pellegrinaggi, ai luoghi di divertimento e ricreazione del popolo delle grandi città; intersecano le superfici dei parchi e ne ombreggiano gli accessi. Alcuni di questi viali sono celebri per la loro lunghezza, la loro età, la loro disposizione a quadrato; spesso, come i viali di tigli alle ville signorili, collegano il centro della città ai giardini residenziali.

In simili parchi vien meno ogni pensiero dell’utile. Essi appartengono al lato principesco dell’uomo e ai suoi ordinamenti. Vogliono creare lo spazio in cui mostrano l’albero e la sua grandezza, e condurre l’uomo dove lo aspettano ciò che è grande e festoso, nei luoghi dove venera o dove gioisce.

Dal momento che l’albero suscita venerazione, ha il suo effetto più forte dove l’uomo con la sua arte ha creato per lui lo spazio aperto che gli conviene. Questo non può accadere dall’oggi al domani. Chi pianta un albero pensa ai nipoti e pronipoti. Questo gesto ha un senso di premurosa pietà che va oltre il consumo quotidiano, l’impiego veloce, oltre la propria vita e la propria morte. Continua a esercitare il suo effetto; lo sentiamo nella quiete, nella pace che ci allietano in un vecchio parco. Gli avi hanno pensato a noi. Li sentiamo vicini, ci allontaniamo dal circuito del tempo che incalza e minaccia. Avvertiamo la quiete anche nel disfacimento. Il picchio nidifica nei tronchi cavi, i funghi si insidiano nel legno fradicio, una polvere rosso- bruna stilla dai fiori di tarlo. Accarezziamo la corteccia del vecchio fratello; egli ha visto i tornei, ed era già imponente quando Colombo allestiva le caravelle. In lui la vita è più forte, sognante, e la nostra vita con le sue cure temporali si fa sogno. Che cosa ne resterà prima che sia trascorso un secolo?

Se dopo un’epoca di consumo sfrenato proteggiamo e difendiamo gli alberi, soprattutto i vecchi alberi, non facciamo che il nostro dovere. Un servizio che non assomiglia a quello prestato a un invalido cui concediamo qualche ultimo giorno di benessere in ospedale prima che riposi in pace. In fondo non siamo noi a proteggere l’albero: è lui che ci garantisce protezione. Non possiamo prendere le sue parti in questa causa. La vecchia quercia, il vecchio tiglio, il vecchio frassino che adoriamo sono simboli che non rappresentano solo l’albero della vita, ma anche l’albero del cosmo. Se non ci azzarderemo a violarli, daremo prova che appunto l’inviolabile è rispettato e continua a sussistere. Ciò dà anche all’ordine del nostro mondo senso e giustizia. Perciò un tempo si dovevano offrire sacrifici prima di piantare un albero.

La potenza di offrire riparo che si avverte nell’albero si è conservata laddove si rispettano gli dei e gli avi. In memoria di un uomo grande o di una grande svolta del destino piantiamo un albero. Quando, come qui in alta Svezia, scorgiamo in lontananza in mezzo ai campi la chioma di un vecchio tiglio, possiamo essere certi che stia lì a far ombra a un crocifisso o a un’immagine sacra e che cadrà vittima della tempesta o del fulmine prima che dell’accetta.

I miti colgono ora l’unità ora l’opposizione. Colgono l’intero e non trascurano nulla, come invece la scienza. Dobbiamo perciò vederli in maniera stereoscopica. E ciò vale anche laddove essi assegnino l’albero ora al padre e ora alla madre, ora alla Terra e ora agli dei. Entrambe le versioni hanno un senso.
L’albero è figlio della Terra, perciò le sacerdotesse nel bosco di Dodona accompagnavano alla loro lode del supremo Zeus quella della madre Terra:

Gea produce frutti, celebrate dunque la Terra come madre!

L’uomo ha sempre cercato di comprendere il divenire e attraversare attraverso la metafora dell’albero - e non solo la sua propria fuggevole vita, ma anche quella delle stirpi dei sovrani e degli dei, delle gerarchie e delle dinastie, dei popoli e degli imperi. Tutto questo si genera dalla Terra sempre giovane per tornare a cadere nel suo nuovo grembo. È il grande modello che configura il “muori e divieni”, e che ancora Spengler tiene presente nel suo studio comparativo delle culture. Esse germogliano, fioriscono, danno frutti, invecchiano e muoiono inspiegabilmente, come fusti millenari, e di nuovo le reclama la Terra.

C’è una ragione per cui viviamo in un’epoca mal disposta verso l’albero. I boschi scompaiono, cadono i vecchi tronchi, e ciò non si spiega solo ricorrendo all’economia. L’economia è solo un elemento concomitante, non fa che compiere l’opera, perché è anche vero che viviamo in un’epoca in cui si sperpera in modo inaudito. Ciò corrisponde alle sue due tendenze fondamentali: il livellamento e l’accelerazione. L’elevato deve perdere la sua altezza e l’età la sua potenza. Con la sua altezza l’albero appartiene al padre e con lui cade tutto ciò che costituisce il principio della venerabilità del padre: la corona, la spada del guerriero e quella del giustiziere, il sacro confine, il cavallo.

Il mito però non riconosce nell’albero solo un simbolo di vita ma anche del cosmo. Con le radici affondate nel terreno primordiale, dischiudendo la sua fioritura nell’universo, genera stelle, soli. Qui il padre e la madre sono uniti in eterno splendore. È il legno della vita al centro della città eterna in cui ancora non vi sono divisioni nè luoghi sacri. Anche il frassino Yggrasil ( è l’albero nella mitologia scandinava simboleggia la vita e congiunge la terra, il cielo e l’inferno), all’ombra del quale ogni giorno si riuniscono gli dei per tenere consiglio, non deve cadere con loro: sopravvive oltre il tramonto".

VIDEO. LA CARITA' - con Don Curzio Nitoglia

 

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L’Associazione si fonda su tre pilastri:

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