Il logos e la luce nella poesia greca tardoantica, tra Neoplatonismo e Cristianesimo
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Il logos e la luce nella poesia greca tardoantica, tra Neoplatonismo e Cristianesimo

Il senso della vita
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Il logos e la luce nella poesia greca tardoantica, tra Neoplatonismo e Cristianesimo
Il logos e la luce nella poesia greca tardoantica, tra Neoplatonismo e Cristianesimo

 

Proiettiamoci in un deserto, in uno spazio totalmente libero, vuoto, aperto e buio. In questo periodo dovremo notare come la notte è illuminata da miriadi di stelle, costellazioni, pianeti, comete ed alcune di loro, con una scia ancor più luminosa, ricadano su di noi ed il nostro pianeta!

Di giorno, se guardiamo il sole, notiamo il suo disco ed i suoi raggi che si irradiano verso di noi. Guardiamo verso il tramonto. Il sole sparisce all’orizzonte visivo. I raggi permangono ancora. Appartengono al sole appena trascorso, al nuovo che nasce altrove - o - al sempre che vi è?

Alba e tramonto paiono somigliarsi. Talvolta nella morte vi è contenuta nuova vita e viceversa…

Guardiamo le nostre ombre son già allungate e ci stiamo incamminando nuovamente verso la brevità della luce ed è già buio prima alla sera, una rapida occhiata all’orologio ce lo svela!

Immaginiamo, a breve, ergersi verso il Cielo la nostra Madre Celeste con un abito adorno di stelle! Un astro del Cielo, stellato, torna al firmamento. Colei che ha recato la Luce del mondo e fin da principio l’ha ascoltata e creduto, sin dal primo annunzio… Un cerchio ed un circolo si compie, si realizza. Par che ambia asceso pure l’Elicona…

Il video che oggi abbiamo il piacere di presentarvi è con Enrico Magnelli e si intitola: "Il logos e la luce nella poesia greca tardoantica, tra Neoplatonismo e Cristianesimo". Sarà un viaggio ricolmo di visioni e significati profondi provenienti da un mondo tardo antico classico, complesso, ricco, assai vivo, ricolmo di trasformazioni, transizioni, che ancora ha effetti su di noi ed influisce sui pensieri e le azioni di chi si abbevera alle fonti di spiritualità e filosofia dello spirito neoplatonico e del primo cristianesimo. Attraverso la poesia greca tardoantica verremo in contatto il logos e la luce nell’universo neoplatonico, verranno menzionati, Plotino, Porfirio, si parlerà anche dello stoicismo e del primo cristianesimo. Verranno mostrate tra le varie correnti filosofiche, spirituali corrispondenze e contrasti, elementi che si fondono, confondono, compenetrano e altre invece che rimangono distanziate…

Saranno riportati alla luce illustri autori ed opere. Si farà riferimento a poesie - INNI- che saranno motivo per analizzare ampiamente il Logos e la Luce. Si vedrà come la luce del Cielo, stabile, raggiunga la luce instabile umana…Si entrerà in contatto con la varie sfaccettature che rappresentano il Logos.

Enrico Magnelli prenderà in esame I componimenti direttamente nella loro versione originale, in greco. Ci tradurrà i testi ad impronta e diverranno vivi; ci offrirà spiegazioni eloquenti, vaste ed articolate in modo pacato, chiaro, autorevole di chi si è soffermato non solo a riflettere ed elaborare i contenuti proposti, ma anche le numerose valenze semantiche di ciascuna parola chiave…

Enrico Magnelli: è Professore di letteratura greca presso l’Università di Firenze. Si occupa di poesia ellenistica e tardoantica, commedia attica, metrica greca, letteratura giudaico-ellenistica, poesia greca bizantina e umanistica, storia della filologia classica.

Il logos e la Luce possono essere intese anche come energie ed energie che ci trasformano. Il problema umano è arrivare ad intuire ciò, comprenderlo, entrare in contatto con tali forme di energia e cercare di assimilarle affinché possano trasformarci ed autorealizzarci.

L’uomo possiede lui stesso un’energia, ma spesso non è sufficiente e non è così "clara" chiara, limpida, luminosa da farci studiare, comprendere, sentire, in maniera adeguata. Pensiamo a quante volte abbiamo letto, ascoltato un qualcosa ed improvvisamente ci pare oracolare… Ci giunge in maniera del tutto Nuova! Ma cosa è necessario fare quando ci rendiamo conto che non abbiamo sufficiente energia per raggiungere uno scopo che uno si è fissato? È necessario soltanto, ci dice Gurdjieff, imparare ad economizzare, in vista di un lavoro utile, l’energia di cui uno dispone, e che, la maggior parte del tempo, dissipa in pura perdita. L’energia viene soprattutto spesa in emozioni inutili e sgradevoli, nell’ansiosa attesa di cose spiacevoli, possibili ed impossibili, consumata in cattivi umori, dalla fretta inutile, dal nervosismo, dall’irritabilità, dall’immaginazione, dal sognare ad occhi aperti e così via. L’energia viene sprecata dalla tensione anche inutile dei muscoli, sproporzionata rispetto al lavoro compiuto; dal perpetuo chiacchierare, che ne assorbe una quantità enorme, dall’interesse accordato intorno a noi o alle persone con le quali non abbiamo nulla a che fare che non meritano nemmeno uno sguardo; dallo sciupio senza fine di attenzione; e via di seguito…

Dal momento in cui l’uomo comincia a lottare contro tutte queste abitudini risparmia una quantità enorme di energia, e con l’aiuto di questa energia può facilmente intraprendere anche uno studio su di sé e del suo perfezionamento e per aprirsi al mondo. Sarà poi necessaria ancor più energia allora dovrà far attenzione ai suoi cibi: il cibo che mangiamo, l’aria che respiriamo, e le impressioni che riceviamo. Dobbiamo non solo imparare a filtrarle, ma elaborarle. E solo dopo aver padroneggiato un minimo queste energie entreremo, forse, in un fluido piùgrande...

Ed ecco che che tiriamo in ballo un libro di Ernst Jünger, uno scrupoloso diario di guerra, dal titolo: "IRRADIAZIONI Diario 1941-1945" riportiamo dal retro di copertina: "Nel 1939, allo scoppio della guerra, Ernst Jünger viene richiamato alle armi come comandante di compagnia, col grado di capitano, successivamente, alla fine della campagna di Francia, è inviato presso lo stato maggiore del comando di Parigi". Ha cominciato intanto a prendere forma quel diario, in cui lo scrittore registrerà riflessioni ed eventi fino ai giorni della sconfitta e dell’occupazione: l’invio al fronte orientale, nel Caucaso; il secondo soggiorno parigino fra il 1943 e il 1944, mentre le sorti del conflitto volgono al peggio per la Germania; il trasferimento a Kirchhorst, dove trascorrerà il resto della guerra, tra sventure private (l’annuncio della morte del figlio sul fronte italiano) e un distacco sempre più marcato dal regime e dai suoi capi militari.

“ Irradiazioni: con ciò s’intende prima di tutto l’impressione che il mondo e i suoi oggetti hanno provocato sull’autore, il sottile intreccio di luci e di ombre che questi oggetti formano”.

Così l’autore di "Tempeste di acciaio" spiega il titolo dato ai diari della seconda guerra mondiale. E aggiunge "Esistono anche irradiazioni chiare e scure. Completamente scure sono quelle zone di terrore che, alla fine della prima guerra mondiale, cominciarono a gettare ombra sul nostro tempo, e si allargano paurosamente”. In quale posizione si è messo, lo scrittore, per osservare tutto questo? Egli stesso afferma di aver inseguito immagini di "completa aderenza". Lo sguardo esatto, impavido di Jünger sa cogliere nello stesso modo, con la stessa esemplare precisione luce ed ombre: le zone di terrore (il fronte caucasico dove non vi è più regola di guerra e si giunge fatalmente a colpire "gli inermi", le stanze di tortura da cui salgono le urla dei prigionieri, i centri di comando da cui si trasmette una violenza cieca…) e quei luoghi in cui, per qualche istante, l’antica civiltà d’Europa ha saputo ancora esprimersi in una discussione intellettuale, in un paragone colto, in un gesto sorprendentemente urbano. Sono, questi i rari momenti di pausa nel procedere implacabile della catastrofe. E la loro descrizione non appare certo come una momentanea e forse colpevole evasione; al contrario, rende ancora più visibile - anzitutto agli occhi dell’autore - l’orrore. È stato scritto che questi diari danno una sensazione di fredda impassibilità, di sovrano distacco, di ostentata percezione intellettuale di eventi e di cose. Chi oggi legge può invece riconoscere in essi una ferma volontà di chiarezza. Jünger parla, nella sua introduzione, di "allenamento alla giustizia”, di una personale “educazione”. Noi ci vediamo un doloroso esercizio alla verità, il coraggio e l’energia di tutto guardare. La lucidità della visione, il "distacco", sono il risultato di uno sforzo supremo, e hanno per effetto una straordinaria incisività. Per questo “Irradiazioni”, rappresenta una ineguagliabile testimonianza del disastro, oltre che uno dei suoi libri più belli.

Nel 42 Jünger si descrive così: "Se chiudo gli occhi vedo talvolta un paesaggio oscuro con pietre, rocce e montagne all’orlo dell’infinito. Nello sfondo, sulla sponda di un mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d’avanguardia, sull’estremo limite del nulla: sull’orlo di quell’abisso combatto la mia battaglia".

Parigi, 29 aprile 1944

…Da molti anni ho notato che la mia capacità di parlare dipende dal grado di spiritualità dei miei ascoltatori. È come se la ruota della conversazione scorresse su un terreno più o meno liscio e, con questo, più o meno sicuramente è senza sforzo. Notevole è però che nel primo incontro con ignoti non ho bisogno che si siano esternati; e questo è spiegabile soltanto nel senso che l’individuo possiede un’aurea spirituale, quasi una emanazione della spiritualità.


Kirchhorst,13 marzo 1945

Elia. Eliseo. I miracoli di questi uomini di Dio sono i modelli, gli stampi di quelli cristiani. Si tratta ancora dì qualcosa di puramente magico, che poi diverrà carismatico. È una forza che serve anche ad azioni malvage, così fa sbranare bimbi dagli orsi o ammorba di lebbra il servo infedele.
La somiglianza è tuttavia evidente; tanto che tra gli apostoli ve ne sono alcuni che vedono in Cristo Elia ritornato. La differenza viene però intuita da Pietro: “Tu sei il figlio di Dio”.
Vi sono nel Nuovo Testamento brani nei quali il miracolo carismatico non si distacca completamente dallo stampo di quello magico: si ricordi l’aneddoto della moneta trovata in bocca al pesce.

Kirchhorst, 14 marzo 1945

Compleanno di Perpetua. Ancora nuovi profughi sono giunti a casa, di modo che essa somiglia ogni giorno di più a una lancia di salvataggio accanto a navi che stanno per affondare. Perpetua mostra di essere all’altezza delle circostanze; sembra che tutto rifluisca dalle sue mani, nella medesima misura nelle quali ella distribuisce. E rimane sempre qualcosa: qui riconosco il vero rapporto con l’abbondanza, con la fecondità. Non è questa anche la verità che si nasconde anche nel racconto della moltiplicazione dei pani. Molta posta. Friedrich Georg mi tranquillizzava con una delle sue lettere rasserenanti. Però scrive anche che Überlingen è stata bombardata. Durante il bombardamento egli si trovava dal filosofo Ziegler in visita. Nella sua lettera riconosco tratti che gli sono propri. “Sono state uccise persone e distrutte case. Tutt’intorno a grande distanza l’aria era profumata dalla fragranza delle tuie, dei cipressi, degli alberi della vita, dei pini e delle conifere, i cui rami e il cui verde erano stati falciati e schiacciati dalle schegge.”

Da Leisnig giunge notizia che anche il fratello fisico ha scritto. Un altro peso tolto dal cuore.

Rosenkranz, che mi provvede abbondantemente alla letteratura, mi ha inviato un manoscritto postumo di Georg Trakl. Ho intenzione di mandarlo a Friedrich Georg. Non vi ho trovato niente di nuovo. La lirica di Trakl è simile al volgere di un caleidoscopio fantastico, che dietro al suo vetro opalescente, nel bagliore lunare, ripete poche, ma pure pietre, in combinazioni monotone.

Kirchhorst, 15 marzo 1945

…Meraviglioso tempo primaverile. Nel tratto di bosco presso Beinhorn ho pensato come sempre a Ernstel: egli non vede più i prati ed i fiori terreni. La sua morte porta una nuova esperienza nella mia vita; quella di una ferita che non si vuole chiudere; della prima siepe che non ho saputo superare.

In simili giornate primaverili, si vede, a migliaia esemplari, l’afodio rosso librarsi per l’aria tiepida. Le elitre sono ancora rosso-lacca vivo, non di uno sporco color ruggine, come avverrà tra qualche mese. Anche oggi li ho visti frullare per l’aria a legioni, mentre altri in gran numero costellavano già la strada, calpestati o spiaccicati dalle ruote. L’apparizione d’un tale sciame nello spazio sinora inanimato ha qualcosa che fa sempre riflettere e pensare all’archetipo, che si propaga con simile forza illimitata in siffatte miriadi. Tale scena è simile al velo rosso, alla rossa nuvola intorno a un visibile polo. A questo alludeva la curiosità di Ernestel, quando una volta, su questi campi, mi disse che la morte è a volte come una festa misteriosa, che si attende con impazienza.

Del resto, in ogni generazione si trova sempre un contatto col prototipo, transustanziazione, che fiorisce dalla carne. Novalis “Non sanno/ che sei tu,/ che ti libri intorno al seno della tenera vergine,/ e che fai del tuo grembo un cielo.”

Durante tutta la strada, hanno sorvolato il Paese poderose formazioni di aerei: passavano oltre, luccicando argentee col fragore di titanici carri da guerra. Io tuttavia, sentivo la primavera con una tale violenza, che pure mi ha rasserenato.
….

Kirchhorst, 25 marzo 1945

Mattina domenicale splendida; ma poi compaiono gli aeroplani e colpiscono a Hannover un deposito di petrolio e di gomma, sollevando tali nuvole di fumo che oscurano il cielo, come durante un’eclissi di sole.

Nelle lettere dalle regioni occidentali veniamo messi in guardia contro gli aerei che volano bassi, il cui improvviso comparire mette in pericolo soprattutto i bambini.
Novalis, negli “Inni alla notte”: “L’amore regna libero,/ non v’è barriera più./ La vita piena ondeggia,/ com’infinto mar…”

Con lo scomparire delle barriere anche i conflitti terreni, separazione e gelosia. A questo proposito la superiore risposta di Gesù (Marco 12), alla domanda dei sadducei: con chi dopo la morte si sarebbe riunita la donna che aveva avuto molti mariti? Ci spingiamo nell’elemento più altamente spirituale dell’amore, di cui ogni contatto terreno è soltanto un’immagine.

“Cum enim a mortuis resurrexeint, neque nubent, neque nubentur, sed sunt sicut angeli in coelis.”

Kirchhorst, 29 marzo 1945

Cinquantesimo compleanno. Questa è la metà della mia vita, se non si misura a braccia, ma con la bilancia. Pure si tratta per questo secolo di una bella età, se si riflette alla lunga, pericolosa salita, particolarmente di colui che non si è risparmiato e si è trovato in situazioni pericolose in ambedue le grandi guerre: nella prima nel turbine della battaglia combattuta con le armi, nella seconda nel cupo ambito del mondo demoniaco.

Il nuovo anno di vita l’ho cominciato con una solitaria notte di veglia, durante la quale ho celebrato tutto solo per me una piccola festa, con le seguenti letture.

1) Il settantaduesimo salmo;
2) Goethe, Orphische Urwerte;
3) Droste Hulshoff, Grundonnerstag;
4) Joh. Christian Gunter, Trost - Aria.

La poesia della Droste, sulla quale ha richiamato la mia attenzione C.S., circoscrive uno dei vecchi solitari scogli della mia vita e ammonisce, nel medesimo tempo, potentemente alla modestia. Così si adattava particolarmente bene a questa doppia occasione del giorno natalizio e del giovedì santo.
Anche l’aria di consolazione ha dei passi meravigliosi come questo:
“Infine fiorisce l’aloe / infine la palma porta i suoi frutti/ infine scompaiono paura e dolore/ infine la sofferenza svanisce/ infine si vede la valle della gioia/ infine, infine verrà una volta.”

Nel pomeriggio è venuto Rosenkranz, col quale ho piantato in giardino un fusto di lilla, come richiamo per le farfalle. Più tardi è venuto anche il generale Lohning, che ieri a Hannover ha perduto la sua casa e tutti i suoi averi. Simili cose, però, provocano poco più commento che non una volta un trasloco. Perpetua offri un pasto luculliano, e aveva non soltanto provveduto del vino, ma addirittura una bottiglia di champagne francese, dimodoché abbiamo banchettato con letizia.

Kirchhorst, 11 aprile 1945

All’alba il rotolio dei carri corazzati. Le batterie di Stelle non entrano in azione. Si dice che i loro uomini, tutti appartengono al servizio del lavoro, si siano dispersi durante la notte, dopo aver fatto saltare con gli ultimi colpi i cannoni stessi e avere ucciso il loro comandante, che voleva fuggire in borghese. Ecco l’uomo che intendeva spianare i campi di concentramento! Ora il suo cadavere si trova nella rimessa dei pompieri. Mi diviene così a poco a poco più chiaro l’orrendo gioco che tali uomini scatenano e mediante il quale corrono verso una orribile fine.
Alle nove, un poderoso, sempre crescente rumorio annuncia l’arrivo dei carri corazzati americani. La strada è deserta. Lo sguardo, stanco, la vede ancora più nuda, più vuota d’aria nella luce del mattino. Come già spesso nella mia vita anche questa sono l’ultimo, in questo pezzo di terra che abbia ancora autorità di comandare. Ho dato ieri in questa veste l’unico comando: occupare lo schieramento anticarro e aprirlo non appena i primi carri armati americani siano in vista.

Come sempre, in tali situazioni, anche questa volta sono avvenute, a quanto mi raccontano alcuni testimoni, cose impreviste. Lo sbarramento si trova nel Lannewehrusche, la vecchia linea di fortificazione, in un pezzo di bosco comprato una volta da mio padre. Quivi sono comparsi due sconosciuti armati di panzerfaust e si sono piazzati ai margini del bosco bloccando così l’avanguardia, poiché è occorso molto tempo prima di poterli, mediante tiratori avanzati disarmare e fare prigionieri.
Poi è giunto un uomo solo. Si è fermato, in piedi, non lontano dallo sbarramento, in un viottolo del bosco. Nell’attimo in cui il primo tank grigio con la stella a cinque punte è comparso, ha tolto la sicura a una pistola e si è sparato alla testa.

Sto alla finestra e guardo, oltre il giardino spoglio, la strada. Il macinante rotolio si avvicina. Poi, lentamente, come una illusione ottica, passa un carro armato grigio dalla rilucete stella bianca. Lo seguono, in formazione serrata, carri da guerra in numero infinito, che continuano a passare per ore e ore. Piccoli aerei li sorvolano. Lo spettacolo desta un’impressione eminentemente automatica nella sua unione di uniformità militare e meccanica, come se sfilasse una parata di bambole, un corteo di giocattoli pericolosi. A volte l’ordine di fermarsi si propaga lungo la colonna. Allora si vedono le marionette, come tirate da un filo, chinarsi in avanti; e poi piegarsi indietro quando ripartono. Come sempre, il nostro sguardo si fissa su particolari precisi; così mi colpiscono particolarmente le lucide antenne per radiotrasmettere che oscillano sui tanks e sulle macchine che li accompagnano: nasce in me l’impressione di una magica partita all’amo, per la cattura, forse, del Leviatano.

Ininterrotta, lenta, pure inarrestabile, scorre questa immensa fiumana di uomini e di acciaio. Le masse di sostanza esplosiva, che una tale colonna rimuove, la avvolgono con una spaventosa radiazione. E, di nuovo, come già nel 1940 durante l’avanzata verso Soissons, sento il prorompere di una poderosa potenza in una regione completamente disfatta. E, anche, torna la tristezza che mi prese già allora. Quanto è bene che Ernestel non veda questo! Troppo lo avrebbe addolorato. Non è più possibile riaversi da tale sconfitta, così come una volta, dopo Jena o Sedan. Rappresenta una svolta nella vita di popoli; e non soltanto infiniti uomini, ma anche molte cose che facevano intimamente parte di noi devono morire in questa transizione.

Si può vedere l’inevitabile, capirlo, volerlo, persino amarlo; e tuttavia essere tormentati da un tremendo dolore. Bisogna sapere questo se si vuol capire il nostro tempo e i suoi uomini.

Che cosa è il dolore della nascita, che cosa quello della morte, in confronto di questo? Forse sono ambedue identici, così come il tramonto del sole per noi rappresenta nel medesimo tempo l’aurora per nuovi mondi.

“Terra vinta ci dona le stelle.” Queste parole si fanno incredibilmente vere in un senso parziale, spirituale, sopraterreno. L’estrema fatica presuppone, ancora ignota, una meta estrema.

I diari possono essere considerati il frutto di una elaborazione consapevole introizzata di Logos e Luce e si tramutano in esperienza consapevole in grado di abbattere il nichilismo interiore, una morte ontologica. Il diario diviene una testimonianza di un passaggio dal buio alla luce e al verbo vivo e vivificante che aiuta a superare i mali del mondo ed avvicinano al mondo dell’origine. Si evince da parte di Jünger un continuo esercizio, un quotidiano mettere in pratica quanto assimilato nelle scritture, che edificano l’essere e lo trasformano interiormente.

Enrico Magnelli, terminerà il nostro incontro, traducendo e spiegando il prologo, l’incipit del Vangelo di Giovanni denominato anche “Inno al Logos” e verrà commentato attraverso "La parafrasi del Vangelo di Giovanni" in poesia di Nonno di Panopoli. Vi preghiamo di sostare sulla traduzione e le parole di Enrico Magnelli. Apriranno ampi spazi di riflessione...

Noi riportiamo questa traduzione dell’Inno al Logos solo come promemoria:

“In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta.”
….

E ancor molti esseri sfuggiranno le tenebre calmandosi di Logos e di Luce eterni così come avvenne in un passato remoto e recente… Per omnia saecula saeculorum…

"CRESCITA D’AMORE"

Credo appena il mio amore cosí puro

come l’avevo pensato

se, come l’erba, dura

vicissitudine e stagione.

Dunque tutto l’inverno mentii, quando giuravo

il mio amore infinito, se cresce a primavera.

Ma se amore, questa medicina

che cura ogni dolore con dolore maggiore,

non è la quintessenza ma, di piú,

misto è di tutto, pena d’anima o senso,

e dal sole prende il suo vigore,

non è amore cosí puro né astratto

come dicono quelli che non hanno altro amore

che la Musa. Ma, come ogni altra cosa

composta di elementi, amore a volte vuole

contemplare, altre fare.

Eppure piú eminente, non maggiore,

l’amore è divenuto a primavera.

Come nel firmamento il sole svela,

non dilata, le stelle,

gentili atti d’amore, come bocci sul ramo,

gemmano alla radice ridesta dell’amore.

Se (come in acqua smossa molti circoli

produce il primo) amore

riceve tali moltiplicazioni,

queste, come altrettante sfere, fanno un solo

cielo, poiché son tutte a te concentriche.

E sebbene ogni aprile aggiunga nuovo

fuoco all’amore, al modo di quei principi

che esigono nel tempo dell’azione

nuovi tributi, senza abrogarli in pace,

cosí nessun inverno gelerà

la crescita d’aprile dell’amore.

John Donne da "Songs and Sonnets", E.K. Chambers, 1896
(Traduzione di Cristina Campo)
da ed italiana "Poesie amorose, poesie teologiche"

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